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L'immagine della settimana

Priscilla

Editoriale 13/2024

Fiori in soffitta

C’è un romanzo, nel cuore nero e beffardo di Lick the Star, uno dei primi cortometraggi di Sofia Coppola che ora è visibile su MUBI. Le giovanissime protagoniste leggono Fiori senza sole di Virginia Andrews, irresistibile regina del gotico statunitense e delle trame torbide e incestuose. È da lì che la cricca di fanciulle prende l’idea di avvelenare chi, nel microcosmo liceale, non vada loro a genio; nel potere sabbatico e vendicativo di questa piccola associazione a delinquere si possono già trovare i germi delle Vergini suicide, delle cleptomani di Bling Ring e del circolo matriarcale di L’inganno, ma ora ci interessa quel libro, Fiori senza sole. La storia dei quattro fratelli Dollanganger, orfani di padre e costretti da madre e nonna a vivere in un’angusta soffitta, che decorano come un immaginario giardino mentre tentano di sopravvivere, occupandosi gli uni degli altri, senza contatto col mondo esterno e con la società, afflitti da carenze fisiologiche e da turbe psicoemotive. Piccoli prigionieri chiusi in un mondo parallelo e costretti dagli adulti a crescere troppo in fretta, pieni di narrazioni illusorie e plasmati dall’altrui ottusa visione: il destino, in fondo, di tante protagoniste della filmografia di Sofia Coppola, autrice di coming of age colorati e pop che celano un seme di fiaba nerissima e cupa. Nelle lunghe giornate di languore giovanile le fanciulle coppoliane decorano le pareti e le pagine di diario colorando con la loro fervida fantasia una soffitta (reale o metaforica) senza sole; a margine, ricordiamo qua che Wes Anderson e Sofia Coppola, pressoché coetanei, hanno in comune più che il feticcio di Bill Murray, ma pure la medesima capacità di fare del loro stile ipersaturo e pop, dettagliato e riconoscibilissimo, la sostanza di un drammatico distacco dal mondo, la patina glamour di un ottundimento esistenziale. Le sorelle Lisbon di Il giardino delle vergini suicide, con le loro adolescenze eteree e ingabbiate; Marie Antoinette, una sposa bambina sradicata dalla sua famiglia per far da consorte e sovrana suo malgrado, nella più dorata delle gabbie (Versailles); e poi Priscilla, sedotta da preadolescente, ricollocata a Graceland e rimodellata sui gusti e i desideri del Re, dal colore dei capelli alle pistole intonate all’outfit. Elvis è un istrionico sposo-padrone (e inevitabilmente anche un po’ padre, per la differenza d’età con la sua sposa bambina), ingombrante per il suo carisma e la sua fama, impossibile da (d)eludere: come già con le figure paterne dolcemente difettose di Somewhere e On the Rocks, non resta che assecondarle, vibrare al loro ritmo, adattarsi al loro stile di vita scollato dal mondo. Ma con Priscilla la messa in scena della gabbia dorata si fa strumento di una radicale operazione di iconoclastia: il Re abbattuto dal suo piedistallo e trasformato in suadente, immaturo predatore di fanciulle, una celebrità incurante dell’enorme squilibrio di potere nelle relazioni che intesse con le ragazzine (oggi si chiamerebbe grooming, ossia la pratica di manipolazione psicologica per adescare giovani fan), plasmandole a sua immagine e somiglianza. Il dettaglio dissonante che a Versailles erano le Converse lilla, nella reggia pastello di Graceland sono le pasticche con cui Elvis mantiene la presa sulla moglie, alterandone la veglia e la percezione, in un sogno circonfuso di lacca e promesse che somiglia a una fiaba allucinata; la vendetta di Priscilla è nel rivendicare se stessa, scardinando il comfort soffocante della gabbia per farsi da sé.

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