Di seconda mano
Editoriale
Di seconda mano
La morte e assunzione di Maradona hanno creato una faglia spaziotemporale: la frattura tra esperienza (ciò che ha fatto) e ricordo (ciò che vale la pena di segnare, o rimuovere). Nel buco nero pascolano le possibilità, si generano i se, i what if. Aspettando che la fiction se ne prenda carico, la faraonica rapidità d’intuizione del(l’Urbano) Cairo (Anubi aveva, in effetti, volto di sciacallo e potere divino) sposta l’ipotesi dal racconto al commento. Walter Veltroni e Riccardo Cucchi commentano Inghilterra-Argentina (in corsivo: è un film) del 1986. Su La7, il 30 novembre 2020. Nessuno dei due, in quell’anno, aveva il potere della parola: Veltroni aspettava di echeggiare Occhetto, Cucchi seguiva il Campobasso. Nel 1986 c’erano Alessandro Natta e Bruno Pizzul. Nel 2020 possono prendersi la soddisfazione di spiegare dopo quello che non capivano prima. Veltroni racconta le Falkland e l’Argentina, e lo fa negli spazi che gli lascia Cucchi, in un’idea di commento calcistico che è quasi più vecchia dei materiali di repertorio. Chi dovrebbe descrivere in fretta ciò che accade (l’azione) tace, per farsi dirigere da quello che è già accaduto. E nel ricordo un gol di Rivera vale una repressione poliziesca. Alla generale lentezza del gioco, animato dai guizzi di Maradona, si sovrappone quella della parola, che non ha vita né emozione, ma si cerca di rianimarla artificialmente con la ragione, monstrum alla Frankenstein, un po’ mockumentary e un po’ Forum. Ciò che abbiamo di fronte agli occhi, partita + commento, è una falsificazione, ma il pubblico è invitato a crederci. Non è il regime del postmoderno, non è Tarantino, piuttosto il trionfo moderno dell’ideologia, l’immagine politica (al posto della politica dell’immagine), il peggior godardismo cinese (e godardo). Era più onesta la Gialappa’s, che prima dei Mondiali del 1990 commentava le partite dell’Italia del 1982. Nell’urgenza della lezione (Veltroni, nel tempo, ci ha spiegato quasi tutto: la sinistra, il cinema, la televisione, l’America...), i due violentano l’essenza della diretta calcistica, che è gesto, evento, opera d’arte, naturale eccedenza, anche alla Storia. La partita si vede, una partita si rivede, ma non si ri-commenta, perché l’unità di tempo, spazio e azione, è sacra. Un commento postumo non è un vangelo apocrifo, ma una bestemmia. Imporre la presenza del giudizio al gesto calcistico è sacrilego, perché la giocata, perfetta o sbagliata (Maradona le fa, entrambe) è solo nel tempo del presente, e quindi fuori dal tempo. Veltroni e Cucchi ridacchiano sul gol di mano, Veltroni richiama Muhammad Ali (la blasfemia) e prefigura il VAR, come Benigni e Troisi che spiegano il treno a Leonardo in Non ci resta che piangere. La facilità autoassolutoria con cui il veltronismo (che è una categoria intellettuale e critica) rilegge l’esperienza popolare è insieme affascinante e deprimente: la ola è stigmatizzata come gesto di massa, volgare, tipico di chi non capisce, ma sente. Cos’è questa cosa nel palinsesto di La7? È un oggetto di cultura o è solo un film, o un talk? Di certo non può essere una partita perché guardando (o riguardando) una partita si tifa. Il tifo è una malattia, lascia tracce addosso. Cucchi urla: è finita. Sì, senza dubbio un’esperienza di racconto della Storia (del calcio) è finita, malamente. Veltroni e Cucchi hanno trovato un modo per esserci. Per essere.
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