Il cinema e nient'altro
Editoriale
Il cinema e nient'altro
Con la scomparsa di Bertrand Tavernier - a 79 anni lo scorso 25 marzo - si chiude un pertugio della storia del cinema. Cineasti così eclettici sono rari. Tavernier cominciò giovanissimo come critico e giornalista, a 20 anni fu assistente di Jean-Pierre Melville sul set di Léon Morin, prete (1961) ma è l’ultimo nome dei generici del film successivo Lo spione (1962) con la qualifica di addetto stampa. Sua professione ufficiale per circa dieci anni, anche per Stanley Kubrick. Nel frattempo, insieme a Jean-Pierre Coursodon, pubblica il monumentale 30 ans de cinéma américain aggiornato poi nel 1995 (50 ans de cinéma américain), due volumi a 135 euro, imperdibili. Tavernier amava molto anche il cinema italiano. Fu amico di Riccardo Freda che contribuì a rivalutare, finché i rapporti diventarono tumultuosi all’epoca di Eloise - La figlia di D’Artagnan (1994), antico progetto del regista italiano (fu Tavernier a sostenere che Freda sul set amasse più i cavalli degli uomini). Nel 2015 la Mostra del cinema di Venezia gli assegnò il Leone d’oro alla carriera. Il cinema di Tavernier come autore è conservatore, non bisogna avere timore di dirlo. Del resto da critico fu il primo a rivalutare Jean Aurenche e Pierre Bost, gli sceneggiatori esecrati dai giovani turchi negli anni 50 perché emblema del cinema francese accademico e polveroso. Alla loro storia ai tempi della Continental dedicherà uno dei suoi titoli migliori, Laissez-passer (2002), ma questo “conservatorismo” stilistico sarà emblematico soprattutto nel rapporto con le trasposizioni letterarie, a partire dall’esordio dietro la macchina da presa di L’orologiaio di Saint-Paul (1974), da Simenon, fedele a un testo reso ancora più contemporaneo da una sceneggiatura perfetta alla quale collaborarono proprio Aurenche e Bost. Così come è sorprendente Colpo di spugna (1981) da Jim Thompson. Il film che considerava il suo capolavoro però è La vita e niente altro (1989) da un soggetto originale suo e di Jean Cosmos, ambientato durante la Prima guerra mondiale che fu un po’ una sua ossessione da storico (sottovalutato, in questo senso, il successivo Capitan Conan del 1996) e proprio questi titoli apparentemente letterari restano i migliori e meno obsoleti della sua produzione, che invece quando si fa moralista, come per gli osannati La morte in diretta del 1980 (al netto di Romy Schneider, magnifica) e L’esca (quest’ultimo addirittura Orso d’oro a Berlino nel 1995) convince meno. Nel 1992 realizza un bel documentario sull’Algeria “francese” inedito in Italia: La guerre sans nom. Da qualche anno era diventato presidente dell’Institut Lumière di Lione, la sua città, occupandosi di promozione del cinema francese soprattutto delle origini e di conservazione e restauro.
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