Il rosa e l'azzurro
Editoriale
Il rosa e l'azzurro
In un’atmosfera di generale conformismo e acquiescenza verso il mondo com’è, ci sono persone che possono permettersi di dire quietamente cose semplici e di disarmante verità. Dopo aver suscitato polemiche per un intervento contro i film di supereroi, Martin Scorsese ha scritto un lungo saggio su Federico Fellini per “Harper’s Magazine” che è anche un’incontestabile riflessione su cosa sia diventato quello che una volta era il cinema e che oggi porta lo stesso nome. L’attacco di Scorsese è un colpo da maestro. Una vera sceneggiatura, in cui un ragazzino (lui stesso, si immagina) vaga per New York con una copia del “The Village Voice” sotto braccio, nel 1959, e il suo vagabondaggio nello spazio diventa un breve viaggio nel tempo, tra i manifesti dei film in uscita nei tre o quattro anni successivi: dai primi titoli della nouvelle vague a Wajda e Cassavetes, da Bergman all’annuncio di 8½. Decine di titoli che costituivano quasi l’aria di una generazione, il suo nutrimento, paragonati al desolante panorama attuale. Sarebbe facile liquidare il tutto come rimpianto di un regista cinefilo alle soglie degli ottanta. Più difficile prendere atto di una mutazione, della scomparsa di pratiche e sensibilità, del loro diventare qualcos’altro. La parola che Scorsese usa come simbolo della confusione attuale è “contenuti”. “Contenuto” è tutto ciò che viene offerto allo spettatore, senza distinzioni di ordine estetico. “Contenuto” è, tautologicamente, ciò il cui scopo è riempire un contenitore. E la parola d’ordine è “racconto”; meglio, “storytelling”. Nei film di Fellini, che per Scorsese è il simbolo di quella stagione, «tutto conta». I registi, scrive, sembravano reinventare ognuno a proprio modo il cinema a ogni inquadratura e a ogni taglio di montaggio. La differenza è tutta qui. 8½, scrive Scorsese, è qualcosa che non sarebbe immaginabile se non come film: non romanzo, non musica o altro. André Bazin diceva che tutti i film nascono liberi e uguali. All’epoca, era un’affermazione rivoluzionaria. Oggi, si potrebbe dire, i film nascono schiavi e uguali. Mentalmente schiavi, come i loro spettatori e, a ruota o per primi, gran parte dei critici. Invidio gli amici che riescono ad abbassare i propri standard fino a essere assolutamente moderni, all’altezza dei “contenuti” e dei “racconti”. Li invidio, perché riescono a vedere molto e godere con poco, e me ne sento disarmato. Ma mi fanno un po’ paura. Perché il rischio è la perdita di una sensibilità, di un piacere. E quando manca non il vocabolario ma proprio il senso del cinema, è difficile spiegare a un cieco cosa sono il rosa e l’azzurro. E probabilmente non serve a niente. Scrive Scorsese che i registi degli anni 60 dialogavano idealmente tra loro, costituivano un tessuto, influenzavano anche le vecchie generazioni che accettavano la sfida e si rinnovavano. Oggi ho l’impressione che i grandi creatori di cinema, quelli che lo reinventano e lo tengono vivo (e ce ne sono a decine in tutto il mondo, da Paul Thomas Anderson a Jia Zhangke, e molti anche in Italia - e Parasite, vivaddio, ha vinto tutto quel che si poteva vincere e l’hanno visto in tanti), siano grandi non in sintonia con il cinema intorno e grazie a esso, ma nonostante tutto. Forse per questo è ancora più necessario festeggiare il cinema quando appare.
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