Ne ho vedute tante da raccontar
Editoriale
Ne ho vedute tante da raccontar
Ai milioni di abbonati del nuovo servizio streaming Disney+ (in Italia dal 31/3 2020), in apertura di alcuni classici animati, è comparso il cartello: «L’opera è presentata così come è stata originariamente creata. Potrebbe contenere rappresentazioni culturali obsolete». Il riferimento è a personaggi modellati su cliché negativi o caricature offensive di determinate etnie: come i corvi (stereotipo afroamericano) di Dumbo, o i gatti siamesi (stereotipo asiatico) di Lilli e il vagabondo. Molto ci sarebbe da dire sull’ipocrisia di Disney, a partire dalla scelta delle parole: Warner Bros. aveva adottato simili disclaimer per Tom & Jerry, parlando più chiaramente di «pregiudizi razziali». Ma quel che ci colpisce è la reazione, di là e soprattutto di qua dell’Atlantico, di persone mature, acculturate e non appartenenti ad alcuna delle minoranze coinvolte dai cliché disneyani: sdegno e derisione. Stai a vedere che bisogna giustificarsi per aver inserito decenni fa la caricatura della cultura afroamericana in un innocuo cartoon! Quanto buonismo, quanta ipocrisia, quanta temibile dittatura del politicamente corretto! Di questo passo non si potrà più parlare di niente! E via dicendo. Il fatto che lamentele di questo tenore arrivino da individui appartenenti alla categoria che detiene il potere economico e l’egemonia culturale nel mondo occidentale - maschi bianchi eterosessuali cinquantenni - ci fa venire in mente una delle più becere argomentazioni contro le lotte della comunità LGBTQI, quella che recita «allora ci vuole anche l’Etero Pride!» (che peraltro già esiste). O anche la pervicacia con cui la succitata categoria sbertuccia le istanze delle «streghe» del #MeToo, colpevoli di minacciare la libertà personale e artistica degli uomini. Il fatto è che no, non ci vuole l’Etero Pride, perché la comunità eterosessuale non ha mai dovuto rivendicare il proprio diritto ad amarsi e sposarsi; e no, le donne che chiedono ambienti di lavoro esenti da molestie sessuali non vogliono castrare il maschio bianco (rubiamo le parole della fondatrice di Women Who, Otegha K. Uwagba: «Gli uomini dovrebbero essere contenti che le donne pretendano equità e non vendetta»). Similmente, non è la maggioranza caucasica a essere “bersagliata” dai (pur blandi e paraculi) disclaimer disneyani. La pretesa sottesa alle derisioni ci pare quella di godersi il film senza il cartello che ne denota il razzismo. Ricapitolando, è più rilevante il diritto di un maturo uomo bianco di vedere in santa pace il numero Siam siamesi rispetto a quello di, poniamo, un bimbo thailandese di essere avvisato che quella è una presa per i fondelli della sua etnia di appartenenza ed è «obsoleta» (che poi lo sia davvero, è un altro paio di maniche). I succitati corvi ne avevan vedute tante, da raccontar; giammai l’uomo bianco tremar, sentendosi minacciato da chi ha infinitamente meno potere di lui.
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