Peppino, il primo piano e l’uovo al tegamino
Editoriale
Peppino, il primo piano e l’uovo al tegamino
Fa impressione sapere che c’era ancora in giro uno che aveva lavorato con Luchino Visconti e Federico Fellini. E adesso non c’è più. Poco prima di compiere la bellezza di novantotto anni, se n’è andato anche Giuseppe Rotunno. Peppino. E così si allontana sempre di più il XX secolo, il secolo dell’occhio del cinema e della pellicola. Se vogliamo, Peppino Rotunno è stato meno autore di altri maestri della luce. Nel senso che non ha cercato a tutti i costi uno stile personale, ed è stato innanzitutto al servizio del film e delle emozioni che voleva trasmettere il regista. A prima vista il bianco e nero di Le notti bianche (1957) di Visconti - onirico, tutto ombre e nebbie - sembra non c’entrare nulla con quello crudo e realistico di Rocco e i suoi fratelli (1960). Da una parte una città ricreata in studio, dall’altra luoghi veri, milanesi e non. Ma in entrambi i casi (cito L’avventurosa storia del cinema italiano di Faldini e Fofi) la fotografia viene preparata «come una sceneggiatura». È parte del copione: racconta, descrive, svela impietosa, nasconde poeticamente. E passando al colore, com’è possibile che Rotunno giri a poca distanza Cronaca familiare (1962) di Valerio Zurlini e Il Gattopardo (1963)? Prima una Firenze bidimensionale, senza sole, ispirata ai quadri di Ottone Rosai. Poi una Sicilia ovviamente assolata, brulicante di colori, con una profondità di campo prodigiosa anche negli interni. E poi c’è il capitolo Fellini, che inizia nel 1968 con Toby Dammit: colori infernali presi in prestito da Scipione. E poi le nebbie di Amarcord (1973) e il mare di plastica del Casanova (1976), fino a E la nave va (1983). Vero e falso, pittura e cronaca, paesaggio e teatro di posa. Sapeva illuminare tutto, Peppino. Come tanti suoi colleghi, Rotunno aveva fatto la gavetta: da apprendista elettricista e addetto allo sviluppo e stampa delle pellicole fino a operatore alla macchina del grande Aldo Graziati detto G.R. Aldo o Aldò, prematuramente morto durante le riprese di Senso nel 1953. Fu in quell’occasione che Visconti gli diede fiducia. La stessa fiducia che gli davano le produzioni di Hollywood sul Tevere. Grazie a lui Ava Gardner, in La maja desnuda (1958) di Henry Koster, non fu mai così bella. Perché, come diceva Fellini, «il primo piano è la prova suprema dell’operatore, come per uno chef le uova al tegamino». Nel 1979 aveva sfiorato l’Oscar con All That Jazz di Bob Fosse. Nel 1987, in Giulia e Giulia di Peter Del Monte, aveva sperimentato una videocamera ad alta definizione in enorme anticipo sui tempi. Aveva lavorato con tutti, da Lina Wertmüller (perché in fin dei conti i colori gli piacevano belli sparati) a Sydney Pollack, da Mike Nichols (A proposito di Henry) a Terry Gilliam (Le avventure del barone di Münchausen). Alla fine del secolo scorso aveva diradato gli impegni sui set e si era dedicato all’insegnamento al Centro sperimentale e al restauro dei film. Una vita tranquilla e operosa, a fianco dei geni, nascondendo di esserlo anche lui.
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