Una questione di stile
Editoriale
Una questione di stile
Dal 15 marzo 2021, in libreria, potete trovare questo libricino, edito da La nave di Teseo (pp. 114, € 8): si intitola Il mistero del cinema, l’autore è Bernardo Bertolucci, ed è il testo scritto (o meglio: trascritto da Michele Guerra e poi corretto da Bernardo) in occasione del conferimento all’autore della laurea honoris causa all’Università di Parma, nel 2014. È il racconto della magnifica ossessione di Bertolucci per il cinema. Del volumetto voglio riportare proprio il capitolo Lo stile. Sono parole semplicissime, che nulla hanno a che fare col cinismo materialista del presente, parole che sanno di pratica e poesia, parole che abbiamo già sentito, che non dicono cose nuove, forse, ma che mi piace fare risuonare qui, in quella che, a guardarmi intorno, è la loro inattualità. Sono parole che credono. Anche, e non solo, nel cinema.
«Non ho mai pensato allo stile del film come a un progetto a cui dovevo attenermi, come a un obiettivo da raggiungere secondo idee precostituite. Da una parte lo stile del film ha a che fare con lo sguardo della storia che si vuole raccontare, uno sguardo che attraversa gli ambienti, si posa sui personaggi e scorre tra le relazioni che si instaurano. Dall’altra parte lo stile è ciò attraverso cui cerchiamo un rapporto specifico e diretto con lo spettatore, il quale - al di là della trama - entra in contatto con un “di più” che, per quanto sia legato ai fatti narrati, li oltrepassa, li illumina più precisamente, o magari li rende più ambigui, più misteriosi.
Io mi sono fatto un’idea del cinema un po’ miracolistica: come dicevo, quando ero con Pier Paolo [Pasolini] mi pareva di assistere sul set di Accattone alla creazione del cinema, e lo stesso mi era successo quando avevo provato a fare i miei primissimi film. Anche l’innamoramento per Godard era dovuto a quell’idea di miracolosa libertà del cinema, per cui girare un film significava soprattutto entrare in una dimensione magica, che poteva trasfigurare il mondo reale, e che faceva sì che quando poi ti trovavi a Parigi ti sembrava di essere dentro un film Nouvelle Vague.
Il momento stilistico è anche il momento in cui ti sembra di sentire la vita del film. Io ho sempre cercato di muovere molto la macchina da presa nei miei film, non soltanto per dare informazioni diverse o più precise allo spettatore, ma anche per dare respiro al sistema di rapporti che andavo raccontando. È qualcosa che ha molto a che fare con la scrittura e che contiene forme di desiderio, per riallacciarci a quanto diceva Barthes, diverse. Il carrello, ad esempio, mi ha sempre fatto pensare alla poesia, è come se tu scrivessi poesie con un tipo di metrica differente: serve per dare movimento, come accade in un verso. Il dolly è come una specie di grande respiro, che riesci a far provare anche al pubblico in sala, mentre nel movimento della panoramica è contenuta l’imprevedibilità rispetto a ciò che accadrà, a ciò che ti troverai a vedere una volta finito il movimento. Lo zoom l’ho usato pochissimo, lo sento come un movimento che rivela in sé qualcosa di falso e questo mi porta a sottolineare uno degli aspetti fondamentali quando parlo di stile: lo stile ha a che fare con la morale, del film e del suo autore».
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