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Editoriale 29/2025
Rester vertical
Ora che è su Netflix, cogliamo l’occasione per tornare a parlare del fenomeno Io sono la fine del mondo di Gennaro Nunziante. Perché l’esordio come protagonista del comico (vincente a teatro e sui social) Angelo Duro è stato il nono incasso stagionale al cinema con oltre nove milioni di euro? Non parliamo di qualità. Per prima cosa, diremmo che Duro è un personaggio in negativo. Uno cioè che non agisce: reagisce. Ed è la reazione a essere il suo unico motivo d’esistenza. Il commento. La reaction. Ricorda qualcosa? Di certo Duro è il contrario di retoriche, buonismi, ipocrisie, valori morali condivisi, a cominciare dal mito del “maschio bianco etero cis consapevole”, cioè colui che, conscio dei propri privilegi, si mette in dubbio, indebolisce (apparentemente?) la propria centralità da fallo ambulante, si mette in posa (ipocritamente?) da “alleato” di quelle che considera “minoranze”, etc. etc.: cioè l’uomo che si sente in colpa o si mette in scena come tale. E che, in ogni caso, eppur si muove. Angelo Duro (regressivo, letterale, contro le sofisticherie del simbolico anche nel nome) no. Il contrario. È fermo, immobile, verticale, fallico, sterile, improduttivo. Un dito medio. Un bambino offeso (che non sarà mai padre ma sempre figlio), che con lucidità autistica sbugiarda le fumisterie dei discorsi intorno a lui. Una mera pars destruens rancorosa, asessuata, anempatica. Che, soprattutto, non si sente in colpa: la causa del suo reagire, della sua vendetta servita fredda, non è sua, del maschio occidentale, come vogliono tutti i discorsi di messa in discussione contemporanea (femminismo, postcolonialismo…), ma (come bofonchia tra sé e sé in a parte esplicativi) è degli Altri o del Prima, dell’educazione dei genitori, dei no, delle bugie, della libertà negatagli da bimbo (parlatene con Lacan). Il riconoscimento che scatta nel suo pubblico è quello di una fascia anagrafica che si è trovata abitante di un mondo in rovina, ammaccato e ammalato da chi c’era prima. Il genio malefico del film, la sua sorpresa, la sua unicità, è qui: nel godimento dell’autoassoluzione. E dunque nello sciorinare premesse da commedia che in un altro film provocherebbero un cambiamento, un movimento - dall’incontro con i genitori invecchiati alla possibile parentesi romantica - e non appagarle mai, in nessun modo. Frustrare le aspettative. Seminare ma non raccogliere, restare immobile, verticale, fallico, sterile, improduttivo, non cambiare e non fingere ipocritamente di farlo (come succede invece con Zalone o Pio & Amedeo). Un preciso manifesto politico e filosofico. Sono quello che sono, sono come m’hanno fatto, sono prodotto e nemesi, sono la fine del mondo. Guardatemi. Perché dovrei muovermi, essere politico, darmi all’attivismo? Il film è l’esatto contrario della chiamata all’agire di C’è ancora domani. Il deragliamento nichilista della Gen Z. Una sliding door verso l’aggressività e l’autoindulgenza, l’essere egoriferiti non per colpa propria, ma perché abbandonati dal mondo. E fa specie che Nunziante, come già detto da Rocco Moccagatta (vedi Film Tv n. 8/2025), in un’intervista a Giusti su “Dagospia” sostenga che nel finale un cambiamento c’è ma che gli intellettuali critici non lo vedano, perché - dice - in fondo Duro sta fingendo di portare i suoi verso la morte, proponendo loro una gita alternativa, come uno slancio d’affetto a sua eccentrica misura: c’è poco o nulla che ci possa far credere a questa versione, solo l’idea che nessun figlio possa volere tanto male ai propri padri. Ma il punto è che il regalo che Io sono la fine del mondo fa ai suoi giovani spettatori (maschi, soprattutto) è l’esatto opposto: il sollievo illusorio, l’ebbrezza momentanea, l’alibi insperato di non dover farsi comprendere da nessuno, di avere tutto da criticare e nulla da cambiare, nemmeno se stessi.