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L'immagine della settimana

Adriano Aprà

Editoriale 18/2024

The shooting

«È proprio come una guerra. Come io l’avevo immaginata». Queste parole apparentemente banali sono pronunciate da Cowboy, uno dei protagonisti di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick. Le rilascia, nel film, in un’intervista alla televisione. «Come una guerra». «Come io l’avevo immaginata». Anche il suo nome è un come : come un Cowboy. E quindi? Cosa ci dice questo come? Ci dice di immagini che han previsto le forme della guerra, forse l’han sceneggiata, forse si son fatte modello per il suo svolgimento, per il suo tragico balletto. Forse anche, e soprattutto, di una guerra che è tenuta da chi la fa in un territorio sospeso e alienato, ammorbidita dal suo impatto reale, in un’ovatta per quanto possibile indolore. Come se fosse solo uno spettacolo. Full Metal Jacket è anche un film fatto di questo: dell’abisso (colmabile solo con cieca euforia o abbandonandosi alla depressione) tra l’insostenibilità della guerra reale e le immagini che l’hanno prevista, raccontata, e a cui i soldati, questi omini passivi che si credono attivi, cercano loro malgrado di riportarla. «Topolin, Topolin, viva Topolin!». Vi ricordate? Lo spettacolo è una patina, una cura o un’ulteriore malattia del reale? Il film di Kubrick mi torna in mente guardando Civil War di Alex Garland, uno degli autori maggiormente lucidi e teorici del cinema (e della televisione, se pensiamo alla serie DEVS, inedita da noi) di oggi. Insieme a De Palma (anche nell’ultimo, sbagliatissimo Domino), Niccol (che lavora sempre meno e con meno) e Shyamalan. Ovvero autori che ci chiedono e si chiedono: «Come funzionano le immagini di oggi? Di cosa è fatto il nostro immaginario? Quanto riusciamo a esistere o resistere, all’interno di esso? Di cosa sono fatti il nostro volere e il nostro potere? E quanto sono realmente nostri?» È un film, quest’ultimo di Garland, di cui parliamo anche a pag. 24 e pag. 106: e se succede è perché è un’opera importante, piaccia o non piaccia. Il suo precedente che meglio ci aiuta a capire questo Civil War è Annientamento (su Netflix), un film manifesto (non solo del cinema dell’autore, ma anche del pensiero ecologista, tramite Jeff VanderMeer, firmatario del libro da cui è tratto) e un film in cui protagonista e spettatore si perdono in una foresta di domande: chi sta agendo? È la protagonista o l’ambiente (quella spora parassita e infestante, insieme infinitamente + piccola e + grande dell’uomo) a pensare e inscenare le immagini che vediamo? Quale è il peso di un singolo, del suo volere, del suo potere, in questo pensiero pensato da tutto quello che sta intorno, fuori ma anche dentro di lui? Anche il sottovalutassimo Men parlava di questo: solo che le ideologie dentro e fuori la donna erano la dittatura del patriarcato e la retorica del #MeToo. È lei a pensare, temere, tremare quell’uomo? O è lei a farsi pensare, in balia di un discorso che la precede, la assorbe e la muove? Civil War è tutto questo, in un’ipotetica e probabilmente prossima guerra civile americana e al tempo di Trump e post verità. La storia di un gruppo di fotoreporter che attraversa uno scenario bellico insensato, un tempo dei lupi, un’apocalisse ai minimi termini, provando tragicamente a trovare un senso per se stesso, mentre intorno l’etica è scomparsa, la morale annullata, la verità inconsistente (come nel recente dittico La sala professori e Una spiegazione per tutto). A chi serviranno mai, quelle foto, se gran parte del mondo non le vuole vedere, tenendosi deliberatamente lontano dal vero? Quanto conta l’impossibile sguardo obiettivo del giornalista, in un sistema mediale in cui tutto è sempre contrattabile, relativo, riscritto dalla retorica? È possibile trovare una misura tra la neutra immagine testimoniale e il dolore degli altri? O l’immagine è sempre uno schermo protettivo, alienante, ovattante? Oppure, ancora, vale quanto uno shoot, uno sparo, un’esecuzione? Garland non ne fa un discorso legato al digitale (tutto è analogico, qui), e dunque al sistema mediale di oggi. Si rivolge all’uomo e alle immagini. In generale. E guarda il tutto muoversi, disperso, smarrìto, euforico, patetico, impaurito, mentre tenta di darsi un perché, un’idea per esistere e resistere, dentro un violentissimo, terminale, irredimibile, teatro dell’assurdo.

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