L'immagine della settimana
Editoriale 19/2025
Tautologie
Habemus papam. Come sapete è Robert Francis Prevost, Leone XIV. Ma non v’ammorberò, in queste righe, con eventuali legami tra il conclave e il film di Berger o quello di Moretti, e non ripeterò come un pappagallo l’assurda filastrocca giornalistica su quanto lo Young Pope di Sorrentino sia stato profetico nell’indicare un nuovo papa statunitense (anche perché difficilmente il personaggio di Jude Law avrà cose in comune con questo pontefice). No, se possibile sarò ancora più stupido di chi fa news sul fatto che raccontare un papa americano in una serie significhi avere improbabili epifanie medianiche, non preoccupatevi. Perché quello che mi colpisce, banalmente, è un’equazione sciocchissima. Cioè che il nuovo papa si chiami Prevost, che in italiano suona esattamente come “prevosto“. Come se il destino fosse già nel nome. Come se, restando al puro livello linguistico, fosse la scelta più semplice, quella più didascalica, praticamente una tautologia. Una questione letterale. È una suggestione, uno spunto, per un discorso che ci riguarda. In un articolo di un paio di mesi fa su “The New Yorker“, la scrittrice Namwali Serpell pone il cinema contemporaneo recente sotto l’etichetta di new letteralism, rievocando un testo di Anna Kornbluh, Immediacy: Or, The Style of Too Late Capitalism. Serpell sciorina una serie di esempi (tra cui Anora che esplicita il riferimento a Cenerentola, la scelta di Demi Moore come protagonista di The Substance, il ricorso a formati e supporti rétro per dire il passato in The Brutalist e Io sono ancora qui) per ribadire quello che su queste pagine andiamo dicendo da anni (vi ricordate il premio Oscar alla “fiaba sulla diversità” La forma dell’acqua?): cioè che l’audiovisivo contemporaneo tende ad annullare l’ambiguità, a ribadire l’ovvio, a non lasciare i simboli a una possibile lettura contraddittoria. A enunciare le proprie interpretazioni, a non aprirsi alla libera lettura dello spettatore. A ripetere a parole quello che le immagini dicono da sé. Tutto vero. Come se l’arte avesse lasciato il posto all’informazione. E la comunicazione avesse preso quello del mistero. Mala tempora currunt, e le smanie del politicamente corretto ottuso (per cui gli attori devono avere le stesse caratteristiche, fisiche, etniche e di orientamento sessuale dei personaggi che interpretano) non aiutano. Ma a questo didascalismo c’è un cinema che reagisce, usandolo come materia prima, come base per raggirarlo: pensate a come, in The Killer, David Fincher (uno che chiamava il bar del personaggio di Ben Affleck in L’amore bugiardo “The Bar“) giochi contro l’enunciazione fiera e sicura del suo protagonista, ponendo uno scarto significativo tra quanto lui asserisce e quanto accade. A come Dag Johan Haugerud (in questo numero recensiamo Sex, ultima parte della trilogia di Oslo) provi a mettere in dubbio ogni facile schema interpretativo e moralistico a cui si riducono le confessioni dei suoi protagonisti. O come registi del livello di Steven Soderbergh (negli ultimi Full Circle o Black Bag), David Cronenberg (nel sublime The Shrouds) o Wes Anderson (siamo sicuri, a partire dal titolo, anche nello spionistico La trama fenicia) facciano sperimentare ai loro spettatori l’eccesso di informazioni, la difficoltà di comprendere tutto quello che passa sullo schermo, la frustrazione del trovarsi di fronte a linguaggi tecnici impenetrabili o a dati che non si riescono a mettere in ordine e gerarchia. Come dite? È solo un ulteriore grado dell’essere letterale? Probabilmente. Ma di sicuro, nell’opera di questi autori, c’è comprensione dello spirito del tempo e, soprattutto, la sua messa in crisi. Amen.