L'immagine della settimana
Editoriale 12/2023
Fai rumore
Una delle opere di arte contemporanea maggiormente conosciute è 24 Hours Psycho di Douglas Gordon (1993), il rallentamento video dei 109 minuti del film di Hitchcock alle 24 ore di un giorno. All’esatto opposto della ricerca di Gordon c’è un’opera meno celebre, Illuminated Average #1: Hitchcock’s Psycho di Jim Campbell (2000): una lightbox, un’unica immagine, in cui sono sovrapposte tutte le immagini digitalizzate del film, fotogramma su fotogramma, la media di ogni singolo pixel. C’è tutto Psyco, in quell’unico frame luminoso. Un’immagine illeggibile, con una grande macchia di luce al centro, e indistinte linee di possibili contorni d’oggetti verso i bordi. Nel 2004 Campbell espone un film, Accumulating Psycho, ovvero l’accumulo, immagine dopo immagine, che porta all’opera del 2000: una versione del film di Hitchcock in cui il fotogramma successivo non dimentica il precedente, ma si sovrappone a esso. Penso a quest’opera, mentre riguardo Everything Everywhere All at Once (da qui EEAAO): quante informazioni può accumulare un film per rimanere leggibile e reggibile? E quanto una visione? Quanto una vita? EEAAO è tante, troppe cose insieme. Ed è esattamente questo il punto. Un film su una donna asiatica di 55 anni stressata, che finisce nel multiverso delle proprie sliding door, dei propri mondi paralleli, dei propri e se invece. Un film sulla giovane figlia, che dalla madre si sente abbandonata, non riconosciuta, e di tutte le possibili identità con cui avrebbe comunque continuato a fallire. E tutte queste strade parallele che si fondono e confondono nelle forme di una cinefilia esuberante ed enciclopedica, che sta tra il pastiche e la queerness, rivendicando anche un consapevole, liberatorio, pessimo gusto. Come fosse il punto d’incontro tra le immagini-memoria di Alain Resnais, filtrato dalle sinapsi-ready-made di Michel Gondry aggiornate al digitale, e i film della Marvel. Un dramma familiare sepolto sotto la cultura, nerd, divorante, camp, di un giovane utente di Letterboxd. Il dramma di trovare un vero se stesso, oggi, al tempo del metaverso, delle nuovissime second life. Un Mr. Nobody che ce l’ha fatta. Un’opera low budget, che discetta sull’universo e tutto quanto, ma vorrebbe sparire dentro se stessa, in un buco nero. Un bagel? Un ombelico, precisamente. O un ano, probabilmente. Dal piccolo al grande al piccolo. Ed è in questa dismisura tra il punto (privato, personale, banale) del film e il troppo delle sue immagini il senso di EEAAO. Che è, dopo tutto, la seduta analitica di una generazione, che potrebbe essere tutto tutto, ma è facile si senta al contrario - sotto l’ovatta di cultura, riferimenti, universi, ironia - niente niente. Aperta al mondo, chiusa in se stessa. Normale non piaccia alla critica che (non) conta, normale che gli spettatori non giovani non ci si ritrovino. Normale che il pubblico americano (quello che la gioventù, negli anni 50, l’ha inventata) lo abbia amato, supportato, portato fin qui. Normale che Spielberg, il regista fanciullo, oggi dica che dai Daniels può solo imparare. Normale che Hollywood punti, con sette Oscar, su chi è riuscito a trovare la forma giusta (indigeribile? Rumorosa? Nauseante?) per parlare agli spettatori del futuro. Quante immagini possiamo leggere e reggere per trovare un senso alle cose? Quanto siamo abituati a sopportare? Che tipo di male ci fa questo troppo di immagini? La risposta a queste domande determina l’odio e l’amore per EEAAO. E dice di chi lo guarda, prima ancora che del film.