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Emilia Perez

Editoriale 06/2025

Il delitto perfetto

Non è che si nasconda, Emilia Pérez. Il film si apre sul profilo di tre uomini: un disegno stagliato nel nero da luci intermittenti, un rosario di spie luminose che scontorna tre figurine, con baffi, naturalmente, sombrero e abiti tipici. Come un presepe di pessimo gusto, un’insegna di Las Vegas, un souvenir kitsch, ma fatto di esseri viventi. Il livello di stilizzazione è questo, cioè quello di un film che è insieme gangster e musical, mélo e soap opera. Non un documentario. Audiard lavora su archetipi e stereotipi, modellandoli, mettendoli in crisi, ed evidentemente confondendo l’agenda del politicamente corretto. Come Cats non è uno spettacolo solo sui gatti (che immagino non si riconoscano in esso), Emilia Pérez non è solo un film sui messicani che si sono lamentati, come non è solo un film su una trans, sebbene il teorico queer Paul B. Preciado abbia dedicato un lungo e sentito articolo su “Libération” a quanto sia sbagliato, normativo e binario. Bisognerebbe ricordare a tutti e tutte una cosa molto semplice: un film non è uno specchio. Non è fatto per riconoscersi completamente. L’arte non serve a questo, ma a trascendere il reale. Il resto è didattica, associativismo, spot progresso. O semplice stupidità. Coloro che han criticato Emilia Pérez perché non rappresenta in modo giusto messicani e trans sanno perfettamente cosa sia bene e cosa sia male, l’adeguato e il non. Il film di Audiard no. Non sa manco se i suoi personaggi siano positivi o negativi: lascia che sia lo spettatore - fiducia non sempre ben riposta - a provare a comprenderli. Dà consistenza a questioni contraddittorie, informa crisi, mette in dialogo e contrasto problemi, riflette su di sé: tanto che il film (un film esasperatamente intersezionale, a volere deformare la nuova accezione del termine, meno teorico e da hashtag quando venne coniato da Kimberlé Crenshaw) si pone all’incrocio tra questioni identitarie (i personaggi se lo chiedono: Emilia vuole cambiare vita o identità? Lo fa per cancellare il suo passato criminale o perché si sente veramente donna? E se fosse per entrambi i motivi?), sociali (il personaggio di Saldaña, costretta a collaborare con una criminale per risolvere una vita da donna sfruttata dal maschilismo lavorativo; ma anche il privilegio di Emilia che può diventare donna e cancellare la sua storia perché benestante e fuorilegge), storiche e politiche (le migliaia di persone scomparse nelle guerre di droga; ma anche i politici che lavano i panni sporchi nell’ipocrisia della beneficienza: quanto sono diversi dalla stessa Emilia?), naturalmente sentimentali (Emilia che vuole i figli con sé, che non vuole che la moglie sia libera) e in tutto questo non è che provi a fare ordine tra le cose. Il contrario. Cerca la complessità e l’irrisolvibilità del disordine, i suoi paradossi, in un itinerario da tragedia classica in forme superpop, in un film bigger than life che non documenta ma sforma, eleva, abbassa, riduce, allarga e non si vuole mai a giusta misura. Solo che non l’hanno capito: non va bene, se non è adeguato e corretto, direi coincidente, per tutti. Quindi come potrebbero capire che se Karla Sofía Gascón ha scritto dei tweet politicamente scorretti anni fa resta comunque l’incredibile interprete di questo film? E non è paradossale che la prima candidata trans all’Oscar come miglior attrice venga ridotta allo stigma di paria dalle nuove norme comportamentali? In L’appiattimento del mondo - La crisi della cultura e il dominio della norma (Feltrinelli, pp. 208, € 22), Olivier Roy racconta di come la fine delle culture al tempo del villaggio globale abbia cancellato la possibilità di comprensione dei significati impliciti (se non si condivide una cultura non si ha la capacità di leggere il secondo grado: oggi succede solo per i meme) e di come questo comporti il ricorso reazionario a norme culturali idiote, di leggibilità binaria, capaci di sacrificare ogni complessità e profondità. Emilia Pérez, un film arditamente, sperimentalmente global (prodotto da realtà apparentemente inconciliabili, se non dal capitale, come Dardenne e Saint Laurent, distribuito e supportato agli Oscar da Netflix) è punito, in una torsione che sa di delitto - o suicidio - perfetto, da queste norme. Noi intanto, in Italia, assistiamo al trionfo del rigurgito opposto: l’ebbrezza sciocca del politicamente scorretto svuotato di Io sono la fine del mondo. A ognuno il suo.

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