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Editoriale 38/2023
E ora qualcosa di completamente diverso
«Si può dire che l’idea di animazione come forma d’arte divenne ovvia con la UPA. L’animazione per l’intrattenimento abbandonava l’esclusivo regno della commedia e diventava terreno per la ricerca grafica e pittorica così come per diversi stili, temi e “generi”. Diventò mezzo della più grande libertà d’espressione». Così scrive Giannalberto Bendazzi, nel fondamentale Animazione - Una storia globale (UTET, 2017). Ma chi si ricorda, oggi, della UPA, United Productions of America, nata esattamente 80 anni fa come Industrial Film and Poster Service da un’idea di Stephen Bosustow, David Hilberman e Zachary Schwartz, prima impiegati presso la Disney? La storia comincia con Hell-Bent for Election, 13 minuti firmati Charles M. Jones (sì, quello dei Looney Tunes): un corto commissionato dal sindacato United Auto Workers per sostenere la rielezione di Roosevelt. Nel film il presidente democratico è una locomotiva che trasporta materiale bellico per «vincere la guerra», in conflitto con il treno repubblicano, numerato 1929 (…) e tra le cui merci ci sono tasse alte e indiretto sostegno a Hitler. Sta all’operatore degli scambi ferroviari, e dunque all’elettore, la scelta. I primi film della UPA sono didattici, propagandistici, di addestramento militare (come A Few Quick Facts About Fear e Flat Hatting). E capaci di sperimentare forme mai viste prima. Per lo stesso sindacato Bob Cannon (di cui consigliamo il dittico su Christopher Crumpet, bimbo che quando sragiona si trasforma in gallo, metariflessione sull’evoluzione di un’animazione che ha conquistato la figura umana e che si fa animale solo per regressione) diresse Brotherhood of Man, opera contro la xenofobia ispirata al pamphlet The Races of Mankind (illustrato da Ad Reinhardt): è questo il film che fece inserire la casa nelle liste nere anticomuniste. Cannon fu anche l’autore del primo Oscar della UPA, Gerald McBoing-Boing, 1951, per i “Cahiers du cinéma” un mutamento paragonabile al passaggio dal muto al sonoro (che sarebbe piaciuto a Tati): la storia di un bimbo che non parla ma riproduce perfettamente suoni e rumori del mondo, commedia priva di gag, di fiera e minimale bidimensionalità, prospettive e sfondi irreali, uso sentimentale dei colori (che possono uscire dai confini dei personaggi), e, soprattutto, il ricorso all’animazione limitata, lontana da quella piena della Disney. Scegliere quale parte animare di un personaggio - per il resto rappresentato come immobile - significa dargli immediatamente un carattere. Nel 1946 John Hubley, che della UPA fu il massimo talento, scrisse col fondatore Zachary Schwartz un articolo per l’“Hollywood Quarterly” che terminava così: «Abbiamo scoperto che il medium dell’animazione è diventato un nuovo linguaggio: linea, forma, colori e simboli in movimento possono rappresentare l’essenza di un’idea, possono esprimerla in modo umoristico, con forza, con chiarezza». Non ci sono idee che il cinema animato non possa liberare, dunque. La realtà non era dello stesso avviso: Hubley dovette abbandonare la UPA a causa della caccia alle streghe maccartista. Fu lui a inventare il personaggio di Mr. Magoo, il maggior successo della casa: un borbottante reazionario anni 50, miope anche perché capace di vedere solo e soltanto quello che vuole. Ironia della sorte? Spirito del tempo. I film di cui scriviamo li trovate tutti su YouTube: se dovessimo programmare un omaggio inseriremmo, oltre ai succitati, Robin Hoodlum (1948), i primi tre film di Magoo, Rooty Toot Toot (1951), musical cubista di Hubley, Tell-Tale Heart (1953) di Ted Parmelee, tratto da Poe e amato da Del Toro, The Unicorn in the Garden (1953) di Bill Hurtz e Jaywalker di Cannon (1955). La UPA chiuse nel 1958: i suoi show televisivi erano troppo sofisticati. Bendazzi, in chiusura, riporta la frase di un regista della Warner Bros.: «Quando morirò, non voglio andare in paradiso. Voglio andare alla UPA». Se avete un’ora di tempo, andate a cercare online questi film. Sono stati un paradiso. In ogni senso: di breve durata.