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L'immagine della settimana

Gena Rowlands

Editoriale 35/2024

Gena forever

«Non le importa dov’è la cinepresa, non le importa se viene bene nell’inquadratura, non le importa di niente, se non che le crediate». John Cassavetes si descrive così nel riflesso di Gena Rowlands, lontana dall’essere Musa, di certo corpo di ogni fotogramma nel confine tra esistenza e illusione. Fuori dal cinéma vérité evocato dai necrologi dell’attrice scomparsa il 14 agosto scorso a 94 anni, mentre non c’è una sola immagine-documento nella filmografia di Cassavetes, solo un immenso atto di forza per trasferire la vita, mentre accade, sulla pellicola. «Lei è un miracolo. È capace di qualsiasi cosa». Gena nasce attrice di teatro insieme a John all’American Academy of Dramatic Arts di New York, città anni 50 e 60 di artisti d’avanguardia, espressionisti, sperimentali, fuori mercato, jazzisti visionari, il Lower East Side della Film-makers’ Cooperative di Jonas Mekas. Ed è qui che Rowlands apparve ombra tra le Ombre (1959) nell’esordio del regista, che si svincolò presto dall’abbraccio di Mekas e se ne andò a Hollywood con l’intenzione di metterla sottosopra. Il New American Cinema era cosa loro. Né l’astrazione estrema di Stan Brakhage e di Michael Snow né la narrazione classica hollywoodiana. Forse più Chantal Akerman/Jeanne Dielman. Gena, però, non taceva la sua estraneità al mondo, e al contrario la gridava per le strade di Los Angeles, bellissima, dietro ai tre figli piccoli e in attesa di Nick/Peter Falk, l’operaio edile, bruno e materico mentre lei era bianca e bionda. Stesso contrasto antropologico tra la gallese (di origine) Gena e il greco John, sì, ma entrambi protesi verso un sistema di recitazione anti Metodo. Non più il personaggio di Stanislavskij da compenetrare fino a immedesimarsi con i suoi virtuosismi, Gena Rowlands smembrava il suo ruolo - sempre scritto da Cassavetes, sceneggiatore ferreo, e mai improvvisato - per farne una creatura nuova, l’essenza di Mabel Longhetti, “a woman under the influence” (come da titolo originale di Una moglie). Cinema fuori norma - Volti (1968), Minnie e Moskowitz (1971), Una moglie (1974), La sera della prima (1977) - che “ruba” la realtà e la fa propria, ne modifica l’apparenza per restituirla fragrante e mai vista. Compito destinato alla pazza Gena, nevrotica, bipolare, con una rotella in meno, secondo amici e parenti che nel vederla roteano il dito sulla tempia. A lei la prova dell’incompatibilità del personaggio (ricorrente) e di quel cinema con lo Spettacolo. Gena in quegli anni recita soprattutto per la tv, ha rinunciato a Broadway, tanto il suo palcoscenico è ormai sulla costa ovest dove tiene testa a John che si rifiuta, come sempre, di spiegarle la parte e le dice freddamente «fallo e basta!». E lei lo fa, non reagisce con violenza e risentimento alla famiglia invadente e crudele in Una moglie, ma sorprende il regista con il volto illuminato dall’innocenza. Non è più la pazza, ma una forma sublimata di resistenza al racconto e all’interpretazione. «Quel che aveva fatto Gena era pura poesia» dirà Cassavetes. È vero, era una grande attrice, diretta anche da Schrader, Mazursky, Allen, Terence Davies, Jarmusch, eppure la bionda dagli occhi celesti conquisterà un posto nella storia del cinema soprattutto per averla riscritta, da Minnie a Mabel alla Myrtle Gordon di La sera della prima, un’altra Eva contro Eva, sofferta fino alle lacrime, tra sbronze e fumo di lunghe sigarette bianche. Indocile ai generi e alle pose da diva anche nello stupendo Gloria - Una notte d’estate (1980), il più “commerciale”, Leone d’oro. Candidata a una pioggia di Golden Globe, Emmy e Oscar, ne vinse uno alla carriera nel 2016. Ma, scriveva Giuseppe Turroni, «sulla bravissima Gena Rowlands potrebbe scendere una pioggia di Oscar, senza che nessun spettatore trovasse nulla da ridire».

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