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Editoriale 37/2025
Domandare è lecito
In La voce di Hind Rajab (in uscita il 25 settembre) Kaouther Ben Hania fa una scelta radicale: mette al centro del film la vera voce della bimba palestinese del titolo, uccisa il 29 gennaio 2024, a sei anni, dall’esercito israeliano. Una voce registrata durante le reali conversazioni telefoniche tra la piccola (chiusa in auto, circondata dai cadaveri dei familiari e in disperata ricerca d’aiuto) e gli impotenti volontari della Mezzaluna rossa. Un documento sensibile al centro di una docufiction, un re-enactment con attori di quello che successe quel tragico giorno negli uffici dell’organizzazione umanitaria. È chiaro che decidere di usare un documento di questo genere apre a questioni non banali: è morale costruire un film intorno a questa registrazione? È legittimo fare dialogare la voce di una bimba morta tragicamente con attori che recitano una parte, per quanto basata su una storia vera? Proviamo a rispondere a queste domande, costruendo un pensiero laterale e lanciando questioni ulteriori. Due dei migliori film di Venezia 82 sono stati due magnifici Fuori concorso: I diari di Angela - Noi due cineasti: Capitolo terzo di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi e Remake di Ross McElwee. Nel primo il maestro armeno si prende cura della memoria della moglie defunta (che firma con lui i film, sempre e comunque, in un commovente gesto d’amore), ricostruendo tramite le immagini da lui girate e la lettura del diario di lei il capitolo finale della loro storia, compreso il resoconto dettagliato, nelle parole lasciate da Angela, della malattia che l’ha portata alla morte. Nel secondo il regista statunitense, da sempre dedito a un cinema in prima persona, si confronta con il decesso del figlio Adrian, considerando anche quanto lo sguardo della macchina da presa possa avere influito sulla salute mentale del giovane. Due opere che si confrontano con documenti, con tracce sensibilissime e impudiche lasciate da persone scomparse (ma non è quasi sempre così con l’archivio? E il cinema non è sempre e comunque «la morte al lavoro»?) e che nessuno si sognerebbe di dire immorali. Perché? Basta l’amore indubitabile degli autori, il legame con la moglie e il figlio a salvarli da questa criticità, a garantire l’etica dell’opera, dell’esibizione di questi documenti? E perché il film di Ben Hania sarebbe tanto differente da tutto ciò? Non c’è forse la madre, alla fine del film, a certificare la liceità dell’opera? È il re-enactment degli attori il problema? Quindi la recitazione (a partire da materiale documentato) è da considerare maggiormente manipolatoria del montaggio? Di certo la scelta della tunisina di ambientare il film esclusivamente negli uffici della Mezzaluna rossa preserva da un lato il documento, la voce di Hind Rajab, da ulteriori sofisticazioni di fiction, e dall’altra crea una sorta di tensione, di thrilling, di pathos nello spettatore, chiamato a seguire i tentativi di salvataggio (ricostruiti filologicamente). È questo coinvolgimento emotivo a essere considerato immorale? Eppure chiunque, entrando in sala, non sa perfettamente come è finita la vicenda? Non è già impotente a riguardo? Come scrivevo la scorsa settimana, il punto di questo film credo sia la ricerca, anche imposta, anche aggressiva, anche scioccante di un’empatia verso quel materiale e quella voce. Un volontario si chiede: «Come può la voce di una bimba morta creare empatia se non lo fanno centinaia di fotografie di bambini morti?». Ben Hania risponde a questa domanda usando il cinema come amplificatore del coinvolgimento. E dello shock. In cerca di una reazione, di una risensibilizzazione. La voce reale di Hind Rajab, lo ricordiamo a chi ci propina ancora sacrosante teorie del cinema degli anni 60 come unica risposta possibile alle domande di un presente con un’ecologia dell’audiovisivo completamente differente, oggi è disponibile a tutti, in reel di TikTok e in video YouTube. È un documento inerme, tra tanti, nell’archivio del mondo. La regista si concentra sulla dimensione dell’ascolto di questa voce, sul controcampo, sulle reaction (diremmo oggi) dei volontari, come a rispecchiare e raddoppiare la posizione dello spettatore. Poi, nel caso il pathos abbia portato a una sospensione alienata dello sguardo, torna alla realtà, al documento, e denuda ogni segno di fiction. Non un trattamento raffinato della materia, ma un uso lucido, deliberatamente scioccante, nel tentare di fare denuncia in un momento d’allarme, di fronte a un genocidio. Ma c’è un’altra domanda, a cui vi lascio, in nome della complessità: e se gli stessi modi, su una vicenda simile, fossero stati usati da chi è dalla parte del torto?