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Steve Albini

Editoriale 20/2024

Il futuro è analogico

C’è stato un tempo, alla fine degli anni 70, quando avere all’attivo anche solo un singolo di successo significava diventare miliardari, in cui gli artisti mainstream più avidi integravano le già cospicue royalty inserendo nelle note di copertina dei loro album una dicitura pubblicitaria (cioè pagata) che suonava più o meno così: «Mr. Pinco Pallino uses and endorses XXX» (sostituite a XXX un qualche strumento di culto, tipo Gibson guitars o Pearl drums). Traduco alla buona: “L’artista X usa e approva/sostiene il tal strumento di marca Y”. Nei crediti interni di Songs About Fucking (Touch and Go, 1987), secondo e ultimo LP della sua prima band, i leggendari Big Black, si leggeva invece «Steve uses and endorses heroin». È inutile tradurlo. E ovviamente non era vero. Sembra una cazzata, ma a me invece è sempre parsa una chiave di lettura, forse la più potente e rivelatrice, dell’attitudine di Steven Frank Albini: intimamente punk quando il termine era da tempo svuotato di ogni significato e ideologia, nonché alieno per natura a ogni lusinga o soddisfazione commerciale derivante dal suo lavoro. Odiava il denaro. Percepiva solo il compenso del lavoro in studio, rinunciando volontariamente a ogni altro provento, fossero percentuali sulle vendite o diritti d’autore. Ed è stato, semplicemente, il produttore discografico (o, come lui si definiva, l’ingegnere del suono) più importante degli ultimi 40 anni. Di più: un forgiatore di rumore, attivo solo in campo rock e nella sua accezione più ampia possibile (considerava il pop «musica per bambini o deficienti»), che con il suo lavoro ha contribuito a definire e sviluppare pressoché tutti i generi evolutisi negli Usa tra gli anni 80 e 90: post-punk, hardcore, grunge, noise, industrial, math e post-rock. Ha messo mano a centinaia, forse migliaia di incisioni con un approccio radicalmente filosofico: in opposizione alla figura del produttore-demiurgo (e talora prevaricatore), si poneva come un’ombra rivelatrice tra l’idea di suono che le band da lui aiutate rincorrevano (spesso alla cieca) e quella che di loro aveva invece sempre già intuito. Il suo lavoro consisteva nel costruire senza interferire, nella ricerca di riprodurre in studio un suono il più aderente possibile a una performance live utilizzando se non enfatizzando l’errore umano come pilastro per il conseguimento dell’autenticità. Con questa concezione analogica, ha lasciato la sua impronta su album-chiave di band già famosissime o di sconosciuti totali: come il controverso e finale In Utero (Geffen, 1993) dei Nirvana o Rid of Me (Island, 1993), capolavoro assoluto di PJ Harvey; come il primo album dei Pixies Surfer Rosa (4AD, 1988) o il seminale debutto degli Slint Tweez (Touch and Go, 1989). E ha contribuito a plasmare i dischi migliori di un elenco infinito di band tra cui Breeders, Low, Jesus Lizard, Head of David, Uzeda, Jawbreaker, Urge Overkill, Songs: Ohia. E ai suoi Electrical Audio Studios di Chicago bussarono perfino Iggy Pop e gli Stooges per il loro comeback The Weirdness (Virgin, 2007). Fu anche un critico (spietato) di band che dapprima denigrò e con cui poi volle avere a che fare (come i Nirvana). E da musicista fondò i Big Black, fusione sintetica di noise, hardcore e sentire industrial; poi i Rapeman, sorta di loro corrispettivo umano; e infine i grandiosi Shellac, che imposero con At Action Park (Touch and Go, 1994: ve ne parlo presto nel Musicabilia) una nuova idea di noise-punk minimalista. Il loro prossimo album, To All Trains, uscirà postumo tra qualche giorno. Albini è morto a 61 anni il 7 maggio 2024 per un attacco cardiaco. Sul retrocopertina del citato Songs About Fucking (ehm) tuonava: «The future belongs to the analog loyalists. Fuck Digital», “il futuro appartiene ai lealisti dell’analogico. Fanculo il digitale”. Suona bene anche come epitaffio.

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