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Paul Auster

Editoriale 19/2024

A un passo dalla vita

«Poiché mi è impossibile prevedere il momento della mia fine, poiché alla mia età i giorni accordati all’uomo sono una grazia o piuttosto un castigo, chiarirò i miei intendimenti. Il prossimo 4 settembre avrò compiuto settantotto anni: è tempo di abbandonare un mondo che mi abbandona e che non rimpiango...». Sono parole di François-René de Chateaubriand, dall’introduzione di Memorie d’oltretomba, e le si trovano citate nel romanzo di Paul Auster Il libro delle illusioni, dove l’autobiografia del «melanconico francese» è ribattezzata Memorie di un uomo morto. Auster è morto di cancro il 30 aprile 2024, non aveva 78 anni ma 77, e nonostante anche per lui fosse impossibile prevedere la fine, in un altro suo libro, l’ultimo, Baumgartner, si era in qualche modo congedato dalla vita. Del resto, i suoi intendimenti erano altrettanto chiari: «Vivere è provare dolore», scriveva a proposito di Baumgartner, «e vivere con la paura del dolore significa non voler vivere». Sospeso fra «stati d’animo contraddittori e reciprocamente distruttivi», nei libri di Auster l’essere umano conduceva un’esistenza effimera, piena di pasticci e tragedie, di scoperte e illuminazioni. Spesso la morte era all’origine del trauma dei suoi personaggi (La musica del caso, Sunset Park, lo stesso Il libro delle illusioni), a volte scaturiva dal racconto come violenza omicida o spinta al suicidio (Invisibile, Mr. Vertigo), altre volte era invece la vita a ripresentarsi di continuo, come nascita ripetuta (4 3 2 1, dove un solo personaggio vive quattro vite parallele) o gioco di camuffamenti e riflessi. I mondi creati da Auster erano fragili, potevano rompersi in ogni momento, come gli edifici della città di vetro dell’omonimo racconto della Trilogia di New York, ma erano anche pieni di svelamenti e rinascite. Quando ancora in Il libro delle illusioni il protagonista in lutto rideva di una comica alla tv, la sua scoperta «recava in sé il peso di una dimostrazione matematica. Se avevo in me la capacità di ridere, voleva dire che non ero completamente apatico. Voleva dire che non mi ero segregato dal mondo così totalmente da non lasciare più penetrare nulla». Per scrivere 4 3 2 1, il suo romanzo più ambizioso (bellissimo, per quanto come altri fiaccato qua e là da strani passaggi trasandati) Auster si segregò per davvero dal mondo, chiudendosi in casa per tre anni; ma quando parlava della scrittura la paragonava al camminare, al ritmo che si prende quando si attraversa il mondo guardandolo. La morte era sempre lì, a un passo dalla vita, raggiungibile per un incidente, una distrazione, uno slittamento dei piani del destino, ma pure il suo contrario. La ciclicità di Fantasmi (secondo tassello della trilogia), che costringeva padri, figli e storie a giustapporsi, col tempo lasciò il posto a un istinto di sopravvivenza che spingeva le storie in avanti. In Follie di Brooklyn, per esempio, un anziano signore guarito dal tumore attaccava a scrivere biografie di gente comune per strapparle all’oblio. Per Auster la scrittura era una salvezza, uno spiraglio che faceva penetrare aria in una stanza chiusa (titolo del terzo tassello della trilogia). E così l’arte in generale. Nel suo grande amore per il cinema, che lo portò a dirigere Lulu on the Bridge e La vita interiore di Martin Frost e a creare con Wayne Wang il celebre dittico Smoke e Blue in the Face, Auster era convinto che libri e film fossero la stessa cosa: lo svelamento di una realtà recondita che avvicina alla verità. Eppure, quando descriveva le scene dei film nei suoi romanzi, trattava il cinema come la letteratura, prendendosi il tempo di guardare così come un lettore si prende il tempo di leggere: ma lo spettatore del cinema vive e vede tutto insieme, non isola gli elementi come il lettore le parole. E finiva così per parlare di film impossibili, così come da regista ha girato romanzi traditi, trovando solo nella pagina scritta il punto d’incontro delle tante contraddizioni di cui è fatta la vita, dunque la sua opera.

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