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Editoriale 45/2025
Contrazione del dominio della lotta
Al tempo di Privilege (1967), con le sue star musicali usate come oppio dei popoli, Roger Ebert scrisse che Peter Watkins sarebbe stato riconosciuto nel tempo come un cineasta della statura di Ingmar Bergman e Federico Fellini. Se le cose sono andate così, è solo per i pochissimi conoscitori di questo autore immenso e insofferente, scomparso lo scorso 30 ottobre, il giorno dopo aver compiuto 90 anni. Un regista da sempre in conflitto con il sistema dei media, per questo abbandonato ai margini, «represso», secondo le sue stesse parole. Premiato con l’Oscar come miglior film documentario (ma non lo era, per quanto fosse documentatissimo: era un mockumentary sui possibili effetti di un attacco nucleare in Inghilterra, sul suo governo impreparato, su un popolo segnato per sempre), The War Games del 1965 fu mandato in onda dalla BBC solo vent’anni dopo. Ed è solo un esempio di un ostracismo imperituro. In Notes on the Media Crisis Watkins individua l’obiettivo di scontro della sua intera carriera, “la monoforma”: «Una forma fatta di immagini montate rapidamente e frammentate, accompagnate da un bombardamento sonoro intenso, il tutto tenuto insieme da una struttura narrativa classica. Una forma di linguaggio originariamente concepita a Hollywood e diffusa in tutti i programmi televisivi contemporanei dalle soap opera ai telegiornali». In una nota del 2018, Dark Side of the Moon, pubblicata sul suo sito pwatkins.mnsi.net, estende il discorso a YouTube e ai social media: cosa potesse pensare degli onnipresenti e rincoglionenti reel, che trovano il proprio piacere perverso nella ripetizione di una struttura e di contenuti previsti, non serve immaginarlo. Ecco, la “monoforma” sta a Watkins come l’illusione naturalistica sta a Brecht: un dispositivo che non mostra, ma impone, che non trascende, ma anestetizza, una grammatica del controllo, gerarchica e manipolatoria, che non lascia margine all’insinuarsi del pensiero critico. Va da sé, stando così le cose, che il problema sia che le scuole insegnano a comunicare e non a mettere in discussione la comunicazione. Watkins, pioniere del finto-documentario, si era inventato una forma, straniante e partecipativa, contro ogni standard anche e soprattutto di durata (The Journey, 1987, ulteriore esempio dell’ossessione per il nucleare dell’autore, è lungo 14 ore e 30 minuti) per provare a risolvere la questione: sin dal cortometraggio The Diary of an Unknown Soldier sposa l’idea di una pratica scardinante e contraddittoria, quella di un cinema cine-giornale che metta in scena (immaginandolo secondo precetti distopici o ricostruendolo con cura filologica) un contesto possibile o storicamente accertato (da Culloden, 1964, con una troupe televisiva mandata a coprire la battaglia nelle Highlands del 1746, fino alla rievocazione della Comune di Parigi in La Commune (Paris, 1871), 2000, passando per la repressione politica della controcultura nel radicale anti-western Punishment Park, 1971), invitando i suoi interpreti non-professionisti a guardare continuamente in camera, a discutere della propria posizione e condizione (dentro e fuori dal ruolo), smontando la quarta parete per mettere in crisi il linguaggio apparentemente neutrale del cinema e della tv (cosa è vero? cosa non lo è?) e instaurare un tempo e un luogo in cui attori e spettatori possono pensare e pensarsi. È un metodo, il suo, che sapeva essere un tentativo imperfetto da raffinare d’opera in opera, e che è alla base anche dei film biografici dedicati a Edvard Munch (1974) e August Strindberg (The Freethinker, 1994), per me gli apici del suo lavoro. Con un unico possibile erede, ovvero l’Adam Curtis di HyperNormalisation, Watkins è stato con Rossellini, Godard e Straub uno dei grandi utopisti per un cinema (e per una televisione) come forma politica: che dal 2000 in poi sia stato inattivo e inascoltato è il segno di una resa a cui siamo abituati. Un’ulteriore estensione della monoforma.




