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Editoriale 26/2025
Questi fantasmi
L’immortalità degli spettri cinematografici, il corpo che non invecchia mai e non muore, il cinema come illusione della vita «con l’unico inconveniente d’essere condannati a ripetere sempre gli stessi gesti e a pronunciare le stesse parole». Un simulacro di vita. Vale anche per la scrittura? Leggiamo e rileggiamo i libri di Alessandro Cappabianca e troviamo la sua prosa danzante come un’opera aperta che ogni volta rivela nuove visioni. A volte, gli spettri non si ripetono. Il cinema, è vero, è incapace di sfuggire alla spettralità delle ombre, sempre sul punto di dissolversi, eppure lo amiamo. I libri, i saggi, gli articoli scritti da Cappabianca, architetto dell’immaginario, scomparso lo scorso 23 giugno nel suo cielo affollato di stelle, registi, generi, è come un film che vorresti rivedere ogni giorno. E più lo vedi e più cambia prospettiva, luce e montaggio e la forma del suo essere, seguendo la Metamorfosi dei corpi mutanti, dove troviamo il Diavolo, il Lupo, dr. Jekyll e mr. Hyde, la Cosa, l’Alieno, il Vampiro... e perfino Mickey Mouse, riconosciuto come un vero surrealista più ancora di Buñuel, Cocteau e dei fratelli Marx. Metamorfosi, è questa la surrealtà di Cappabianca, potenza del cinema di sfidare la corruzione della carne, il fil rouge che l’accompagna alla ricerca di Billy Wilder, Erich von Stroheim, Roman Polanski, Carmelo Bene, Chantal Akerman, Clint Eastwood... Popolo di fantasmi già prima della morte fisica eventuale. La sua originalità nello scrivere di un film era penetrare tra i fotogrammi e rifare la regia, riposizionare la macchina da presa e illuminare sequenza dopo sequenza con l’obiettivo di ricollocare il soggetto, così nelle intenzioni della sua rivista “Fiction - Cinema e pratiche dell’immaginario”, fondata nel 1977 (e chiusa nel 1980) con Ellis Donda e Michele Mancini, dove si parlava di funzione della narrazione filmica e del suo impatto «sulla costruzione del mondo». L’inconscio ottico, la materialità del set, i modi di produzione da ribaltare, l’importanza della percezione. Insieme a Edoardo Bruno è stato la voce critica più influente della storica rivista “Filmcritica”, che ha sfornato tanti pregevoli scrittori di cinema. La sua generosità lo ha portato a diffondere analisi e recensioni su molte pubblicazioni anche accademiche, perfino amatoriali, sempre interessato al cinema come alter ego della realtà, luogo del «corpo glorioso», risorto, «ma forse» scriveva «una vera esperienza surrealista sarebbe quella d’uno spettatore morto, uno spettatorefantasma, idealmente vagante non tanto di sala in sala, di film in film, ma d’epoca in epoca, al di là di ogni confine temporale». Di questo si discuteva con Alessandro, sulla possibilità del cinema di andare fuori di sé, sulle barricate di qualche rivoluzione, in sintonia con l’amato Artaud e con il suo «corpo senza organi», vocazione all’abbandono dello stato di schiavitù della carne, «non per assurgere allo stato di corpo-macchina, ma a quello di corpo/energia, corpo/albero o corpo elettrico». E credo che lui stia ancora lì, seduto nella poltrona affianco alla nostra, perfetto modello della teoria di André Bazin secondo il quale il compito di un critico di rispetto è prolungare lo shock dell’opera d’arte e il suo piacere estetico il più possibile. Credo che ogni pagina di Alessandro produca lo stesso effetto: prolungare la magnifica idea che qualche volta i fantasmi escono dallo schermo e camminano con noi.