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Editoriale 46/2025
La politica del fare
«Non amare Fritz Lang significa non comprenderlo e non comprenderlo significa non comprendere il cinema» scriveva François Truffaut. Ma quali sono i registi contemporanei che oggi potrebbero farci prendere una posizione tanto radicale quanto apodittica, forse ottusa e sicuramente antidemocratica? Ogni critico porta con sé i propri, pur sapendo che l’aut aut non sia troppo elegante: per me, se vogliamo usare le dita di una mano come misura e considerare i primi che mi vengono in mente, Shyamalan, Soderbergh, Fincher, Dumont, Sokurov. Mi torna in mente la frase di Truffaut da un lato perché per Il saggiatore è uscita la raccolta dei suoi testi per “Arts”, Il cinema secondo me, dall’altro perché mi è capitato di ripeterla, con troppa nonchalance e non pensando agli effetti, a un esercente, una sera come un’altra, proprio riguardo a Orfeo di Virgilio Villoresi (in sala dal prossimo 27 novembre), che abbiamo adottato con il progetto Anima e corpo e che trovate in copertina su questo numero. Sull’opinabilità indiscutibile della mia uscita abbiamo parlato animatamente (diciamo pure litigato), ma dato che i suoi limiti sono evidenti, tanto vale capirne le cause. E allora mi chiedo: come si fa a non amare un’opera uguale a null’altro, fuori dalla norma del mercato, girata in totale autarchia e completo artigianato, come una sognante fatica donchisciottesca, capace di attraversare, come in un romantico film-saggio, le forme del cinema d’avanguardia, dagli esperimenti stupefacenti del precinema a ogni possibile via dell’animazione, passando da Jean Cocteau a Jirí Trnka, dallo sperimentalismo americano al cinema bis italiano, e facendone materia popolare, accessibile ma non per questo omologata, attaccata a una storia d’amore mitica, ancestrale, universale come quella tra Orfeo e Euridice? Si può, evidentemente, perché si può tutto, e ci mancherebbe. Ma quello che rivendico è lo slancio di una scelta, la difesa di un’idea di un cinema possibile, che per me tiene insieme la meraviglia infantile di un novello Méliès e il rispetto profondo per una cultura non sufficientemente condivisa, dimostrando che quello che chiamiamo cinema sperimentale (ma che è soltanto lontano dal linguaggio usurato) può essere per tutti, e che la forma oggi dominante è solo una banale e stanca convenzione. E questa scelta, questa passione, è quello che distingue una critica burocratica da una critica che crede in quello che fa, lo studioso dal militante. Per questo, con Film Tv, stiamo cercando di diffondere con il progetto I fantastici 4 opere non distribuite che rappresentano differenti sfide al linguaggio. Dei film bisogna scrivere, ma i film bisogna anche programmarli, provare a farli vedere. E forse, e qui torniamo a Truffaut e al sogno cieco e dirompente della nouvelle vague, i film bisognerebbe anche farli. Tra i produttori esecutivi di Orfeo, troverete anche il mio nome. Villoresi, che stimo e seguo da un decennio e a cui ho semplicemente dato un paio di consigli a film ampiamente finito (un film fatto tutto da solo, nei suoi studi, coi suoi soldi, con la sua squadra), s’è offerto di inserirmi nei crediti, e la vanagloria m’ha fatto optare per accettare l’invito. Non ci guadagno nulla, forse ci perdo, do adito al dubbio, apro il mio operato al sospetto. Ma poco mi importa: da anni, qui a baracca, sosteniamo, discutiamo, aiutiamo l’opera in progress di autori che rispettiamo, e non perché sono amici. Ma perché, da critici, ammiriamo la possibilità delle strade che possono aprire. E se oggi anche i festival stanno chiudendo i territori per forme non omologate, è il caso di farsene carico: c’è il mio nome, in quei crediti, perché credo in questo film, e tanto vale dirlo a chiare lettere.




