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L'immagine della settimana

Sexy Beast

Editoriale 23/2023

Il medium è il messaggio

Jonathan Glazer (Londra, 1965), quattro film in 23 anni, è uno dei maggiori cineasti contemporanei. Punto. È stato il meno prolifico dei grandi del videoclip tra gli anni 90 e i Duemila (chi sono? Michel Gondry, su tutti, poi Spike Jonze e l’oggi invisibile Chris Cunningham), un regista per cui videomusica e spot sono stati luogo in cui sperimentare sguardi e tecnologie. L’esordio nel lungometraggio è con Sexy Beast - L’ultimo colpo della bestia (2000, on demand su Prime Video, canale Full Action), un’eccentrica storia di gangster, con un Ray Winstone in pensione, placidamente scottato dal sole della Spagna, e un iroso Ben Kingsley a cui non è possibile dire di no, che lo vuole per un’ultima rapina. O forse no: forse quello è solo il pretesto, per il bestiale criminale, per rivedere l’unica donna che gli sia mai piaciuta, sposata con un «pallemosce». Un noir in piena luce, uno spettacolo pinteriano survoltato, in attesa di un evento rimandato (il colpo), fatto di premesse raccontate poco a poco, di non detti pronti a esplodere, di impulsi tenuti troppo taciuti, sublimati in atti violenti: un teatro psicanalitico dell’assurdo. Quattro anni dopo, 2004, è il turno di Birth - Io sono Sean, scritto da Glazer con Milo Addica e, soprattutto, Jean-Claude Carrière (sì, quello di Buñuel), innamoratosi del regista dopo averne visto gli spot: «È un maestro nell’arte dell’immagine», dice. Il film racconta la storia di un bimbo di dieci anni che si presenta in un appartamento altoborghese dicendo d’essere il marito defunto di una donna pronta a risposarsi. Truffa o reincarnazione? Glazer, la cui ossessione per il cinema di Kubrick è da sempre riscontrabile nei videoclip, inquadra Nicole Kidman come in una postilla di Eyes Wide Shut, un corpo e un cinema reimmaginato con gli stessi angoli di ripresa, in un controcampo sadico dell’ultimo film del maestro (di cui aleggiano gli spettri di Barry Lyndon e Shining): non è il tradimento, a essere solo sognato, ma è l’impossibilità di un amore oltre il tempo, un mito romantico, una stortura che plagia bimbo e donna. E anche qui il cinema nasce da un rapporto sessuale che non si può consumare, un atto mancato che si sfoga in un film. Anche Under the Skin (on demand), nove anni dopo, 2013, lavora sul concetto di alieno. Glazer non adatta il romanzo di Michel Faber Sotto la pelle: lo evacua. Scarlett Johansson è un extraterrestre che si nutre di uomini, facendoli sprofondare in un abisso nerissimo: il regista la dirige nascondendo otto microcamere nel furgone con cui fa cruising tra le strade di Glasgow, adescando persone reali come in una candid camera, come a mettere alla prova, in quell’incontro tra Hollywood e la vita, tra la Diva e l’Uomo qualunque, l’estetica e l’etica del digitale, il suo confondere autentico e inautentico, la sua realtà in alta definizione e scarsa referenza, il suo avvicinare apparentemente tutto quel che ci sta lontano. Nel mentre, comunque, quel che può fare con la computer grafica lo fa artigianalmente (il balletto tra eros e thanatos nel nero pece è fatto in teatro di posa, non con green screen), regalando immagini di sintesi (come solo un regista del muto o un pubblicitario saprebbe fare) potentissime. Un film mai visto prima. Oggi, ancora dieci anni dopo, Glazer torna con un adattamento: quello di uno dei romanzi maggiormente controversi degli ultimi anni, La zona d’interesse di Martin Amis (venuto a mancare mentre il film era a Cannes, il 19 maggio scorso): il regista paga i diritti a una delle idee dello scrittore (il situare una commedia SS a un passo dai campi di concentramento), sfolla ogni ulteriore ipotesi narrativa e, nuovamente, fa sì che il dispositivo sia il vero punto del film, il medium che si fa messaggio e che il cinema reinquadra, soppesa, indica, giudica, rimedia. La villetta e il giardino dei nazisti sono osservati da dieci camere gestite da remoto, come in un reality show, come in un mondo in cui ogni cosa si crede visibile e registrabile, ma solo perché si è escluso il fuoricampo, l’osceno, il dolore dell’altro, le colpe taciute. È un film sull’Olocausto, un aggiornamento di 2001: Odissea nello spazio, un’opera che è pratica, teoria, critica del presente. Chapeau.

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