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Editoriale 48/2023
Secondo copione
Perché #losapevamotutte cos’era successo a Giulia Cecchettin? Perché è la solita storia. Non è vero che va sempre a finire così (lo ricordiamo a beneficio del puntiglio #notallmen), ma va a finire così abbastanza volte perché la prima cosa che ti viene in mente, quando scopri che una donna è scomparsa insieme a un ex compagno “disperato” per la fine della relazione, è che lui l’abbia uccisa. Ed è proprio questo il punto. Il femminicidio di Giulia Cecchettin è un paradigma. È un “tutto secondo copione”. La giovanissima età e l’apparente “normalità” dei coinvolti sono certamente ciò che accende l’ossessiva attenzione mediatica, ma nello stesso tempo sfuggono irrimediabilmente alla riduzione allo specifico della cronaca nera, spogliano di ogni “eccezionalità” il romanzo criminale, svelano un contesto sistemico dalle radici profonde e ramificate, “insospettabili”, apparentemente e disperatamente inevitabili. Proprio nei giorni attorno al 25 novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, strappano l’ipocrita ritualità della commemorazione al suo astrattismo; gli stessi giorni in cui il campione d’incassi cinematografici in Italia è un’opera che racconta la normalità della violenza domestica, che macina passaparola perché così tante e così tanti vi si riconoscono, e che a qualcuno viene facile definire didascalico proprio perché lo è, perché illustra cose ovvie. Ed è ancora questo il punto. A tutto questo Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, altrettanto giovane, altrettanto “normale” (nonostante il puntuale attacco su più fronti riservato “secondo copione” alle donne che parlano), dà - in tv, in prima serata, nel tempio del mainstream - una forma discorsiva lucida e consapevole, sottraendo la vicenda alla morbosità del true crime e restituendola alla politica; ribaltando il futile imbarazzo del minuto di silenzio in un grido di rabbia, e di lotta. Anche la reazione stizzita di tanti uomini (non tutti, per carità, e per fortuna) è “secondo copione”, e forse sta qui uno dei nodi cruciali del fraintendimento: a decretare che “boys will be boys”, che “l’uomo è cacciatore”, che la mascolinità debba imporsi sistematicamente attraverso pratiche violente sono il maschilismo e il sessismo, non i femminismi. I femminismi fanno, da sempre, l’esatto contrario: rifiutano l’inevitabilità del sistema, ripudiano la solita storia, teorizzano (che è solo un altro modo di dire “immaginano” e dunque “raccontano”, come diceva Ursula K. LeGuin) un altro mondo (la stessa cosa la fanno gli antirazzismi, la militanza queer, gli ambientalismi, insomma, tutte quelle battaglie che a tanti piace infilare nel cestone del “politicamente corretto”). Alla faccia del pensiero unico. In quel grande film politico che è Killers of the Flower Moon di un regista giovanissimo come Martin Scorsese, il luciferino e avido William Hale, interpretato da Robert De Niro, mentre fa avvelenare e massacrare gli osage, non fa che ripetere quanto li ami, quanto li rispetti e li ammiri, aggiungendo però che purtroppo la loro fine è segnata. È inevitabile. È la solita storia, non c’è niente da fare. Non c’è altro destino. Noi non siamo d’accordo. Noi, il solito copione, lo bruciamo tutto.