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Eden

Editoriale 18/2025

Voglio tornare a casa

«Il cinema ispira la vita?» potrebbe chiedere l’indefesso Gigi in una delle tantissime notti pagate dal nostro canone. Probabilmente, diremmo noi. Ma cosa ci sta dicendo il cinema americano, in questi giorni? Che dev’esserci un che di sospetto nel comprare degli immobili? Veramente? O che le frontiere, le linee di confine, la proprietà privata portano solo al conflitto? Considerando la classe sociale dei suoi protagonisti, Un film Minecraft è a modo suo - come suggeriva Sergio Sozzo tra le righe del suo Marienbad (su Film Tv n. 16/2025) - un film sulla crisi abitativa, mattoncino su mattoncino, e, purtroppo per i suoi protagonisti, ritorno. E allora che dire di Eden di Ron Howard e di I peccatori di Ryan Coogler? Tutti e tre i film si basano sulla possibilità per un gruppo di persone di far sì che un luogo (o un mondo, in Un film Minecraft) sia a misura dei propri sogni. Ma poi, purtroppo, ci sono gli altri. Nel film di Howard, liberamente ispirato a una storia vera, le Galapagos sono un paradiso in cui provare a ricominciare dal principio dopo il trauma della Prima guerra mondiale: solo che il primo ad arrivare in loco, il medico pioniere Friedrich Ritter, mentre filosofeggia su come rifondare la civiltà e salvare con la sua macchina da scrivere il destino della Terra, non si dimostra particolarmente propenso ad accogliere la coppia di migranti che, come lui e sua moglie, vuole solo una nuova casa lontana da quello che è passato. E tantomeno risulta ben disposta la presunta baronessa, sbarcata con due bellimbusti in calore e con il progetto di fare di quel posto - udite, udite - un resort per ricchissimi, un White Lotus ante litteram (ogni riferimento a fatti e detti recenti è inconsapevole, naturalmente, si chiama “spirito del tempo”). Il risultato? Un grottesco jeu de massacre inedito e ingestibile per la misura di Ron Howard, un homo homini lupus con macello di star e starlette (Ana de Armas, Jude Law, Sydney Sweeney, Daniel Brühl, Vanessa Kirby) e dunque un sogno (americano) caduto, un’utopia che si rivela il proprio opposto. Coogler, dal canto suo, porta i suoi protagonisti (il doppio Michael B. Jordan), dal passato opinabile al soldo di Capone e con le radici e il legno delle chitarre ben piantati nel blues, ad acquistare un immobile per farne un juke joint, un luogo comunitario di incontro, musica, ballo, per neri. Solo che i poveri non pagano con la giusta valuta, e quindi i nostri la cercano nelle tasche degli irlandesi che bussano alla porta: sono vampiri, stanno portando la peste, quel luogo è una fottutissima trappola. E in ogni caso, nemmeno le monete dei morti viventi sono di valore riconosciuto. Come succede con il cinema di Jordan Peele, il film di Coogler trova tensioni complesse e contraddittorie anche se in superficie sembra limpido e didascalico: anche gli irlandesi sono discriminati, anche le loro monete non valgono nulla, e ogni guerra civile è sempre legata all’instaurare una soglia, un dentro e un fuori, una separazione (anche tra i vivi e i morti). A cosa ci portano queste riflessioni? A quei conflitti regressivi - su frontiera, impresa, territorio e capitale - che stavano alla base del genere western. E se è la vita a ispirare il cinema, caro Gigi, direi che abbiamo fatto dei bei passi indietro.

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