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Rosencrantz e Guildenstern sono morti

Editoriale 49/2025

Il mago del palcoscenico

Pur avendo scelto male data e luogo di nascita (Cecoslovacchia, luglio 1937), sir Tom Stoppard, rampollo intellettuale di una famiglia ebrea, emigra presto a Singapore e in India, dove acquista il cognome del nuovo marito della madre, un ufficiale inglese. Ha così giocato con le parole, divertendosi molto nelle possibilità del teatro nel teatro, rompendo tutti i giocattoli del palcoscenico per vedere come sono fatti. Ma c’è anche un contesto: passata l’ondata del Free Cinema di Richardson, Reisz, Anderson, Loach, i giovani arrabbiati, ribelli con una causa, ecco il Free Theatre della triade Osborne, Pinter, Wesker, coi loro disagiati interni casalinghi, le domeniche piovose e quelle affollate cucine in cui né Oscar Wilde (che Stoppard avrebbe poi parodiato) né Shaw o Coward avrebbero messo piede. Tom Stoppard ha comunque le stimmate made in Britain, tanto da ottenere due volte, oltre a cinque Tony, il premio Laurence Olivier. La sua fama è legata al titolo, nato in teatro nel 1967 e diventato film nel 1990, Rosencrantz e Guildestern sono morti, Leone d’oro fischiato alla Mostra di Venezia e recitato in Italia dalla Moriconi e Ferrari, equamente divisi dal gender. Per il teatro Stoppard, che è scomparso a 88 anni lo scorso 29 novembre nel Dorset, ha vissuto e scritto molto, fuori per sempre dagli interni proletari inglesi con puzza di fritto: è anche lui debitore a Pirandello, ma si diverte anche a scrivere per il cinema, ripagato da un Oscar nel 1999 per Shakespeare in Love. È spesso andato a disturbare i santi, a partire dal cult Rosencrantz che parla di due comprimari dell’Amleto, i due amici del principe infelice che re Claudio manda a Londra con lui per sorvegliarlo su una nave che basta un nulla per diventare metaforica. Nel film due balordi (Oldman e Roth), irretiti da un capocomico (Dreyfuss), assistono alle cose della vita regale di Ofelia e Amleto e finiscono per morire impiccati. Del resto nella famosa tragedia restano vivi solo gli armigeri. Stoppard ama il gioco intellettuale che ribalta le aspettative: è chiaro che qui i due giovani comprimari sbalzati al primo posto in locandina hanno letto Beckett e Kafka. Il cambiamento, continuo, quasi già digitale, di prospettive, occupa The Real Thing, 1982, in italiano La cosa vera, recitato da Fantoni e la Occhini, dove un triangolo amoroso viene analizzato e inquadrato sotto molte prospettive, allargando il potere simultaneo dei sentimenti, barando ancora una volta su vero e falso. Stoppard, definito un mago Houdini per il continuo e ripetuto ping pong tra mariti, mogli e amanti, fa pensare a Strindberg e ai Girotondi di Schnitzler. E Stoppard pattina sul ghiaccio del vero-falso con enorme talento. In Italia Michela Cescon s’è presa la costosa responsabilità di allestire The Coast of Utopia, trilogia di proporzioni ronconiane, come l’inedito a noi Leopolstadt, saga di una famiglia viennese dal 1899 al 1955, alla Hermann Broch, mentre in After Magritte si diverte con un testo ambientato in un quadro di Magritte. Anche al cinema vede sempre doppio fin dal debutto, scrivendo con Fassbinder Despair, con un sosia dostoevskiano. Nell’atto unico Il vero ispettore Hound, due critici, mentre assistono a un giallo, vengono coinvolti e uccisi. Il suo temperamento di detective si esplica in un tv movie di Marlowe, Omicidio a Poodle Springs, La casa Russia, indi il cult Brazil, una stupenda Anna Karenina e due Spielberg, L’impero del sole e Indiana Jones e l’ultima crociata. Se Stoppard è solo la controfigura di Pinter, è perché non gli è accaduto di imbattersi in un genio del doppio come Joseph Losey.

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