Come già guardando Amy di Asif Kapadia, anche davanti a Framing Britney Spears - il chiacchieratissimo doc realizzato dal “New York Times”, in Italia disponibile sulla nuova piattaforma Discovery+ - sembra di assistere a qualcosa di drammaticamente inevitabile: un’ascesa fulminea, un successo accecante, e poi un (neanche troppo) lento andare in pezzi, davanti agli occhi di tutti, sotto i flash dei paparazzi. È uno spazio in cui la prevedibilità della realtà e la reiterazione delle narrazioni sulla celebrità (tra plurimi remake di A Star Is Born e la formuletta fatta a stampo di quasi ogni biopic musicale) s’incontrano, si fondono, e determinare cos’è venuto prima e cosa dopo diventa impossibile. Framing Britney Spears attira la curiosità del pubblico con uno spunto “true crime”: è vero che il padre di Britney, Jamie Spears, cui oltre un decennio fa è stata affidata da un giudice la custodia totale della cantante, la tiene “prigioniera” contro la sua volontà, sfruttandola economicamente e privandola di ogni libertà? Ma il vero tema del doc è un altro (anche perché di verità assodate sulla questione conservatorship non ce ne sono, e nessun membro della famiglia o attuale collaboratore di Spears ha accettato di farsi intervistare per il film): la “parabola evolutiva” raccontata in Framing Britney Spears è quella dei media e, di conseguenza, di noi spettatori. Sotto accusa diretta è il giornalismo a cavallo tra anni 90 e nuovo millennio, particolarmente sgradevole nei confronti delle giovani donne (uno dei reporter intervistati si premura di ricordare che «erano i tempi dello scandalo Lewinsky», e non è un caso), costrette dentro aspettative contraddittorie e irrisolvibili - e Britney Spears è forse l’esempio più calzante di questa schizofrenia pruriginosa che la voleva contemporaneamente ultima vergine d’America e Lolita iper sessualizzata. Una riflessione indubbiamente innescata dal #MeToo, checché ne pensino i suoi detrattori, che c’interroga anche su quanto siamo disposti a tollerare in cambio del nostro diritto all’intrattenimento. Ma Framing Britney Spears rivela ancora altro, cogliendo la mutazione della figura del fan: alla “cultura da tabloid” intrinsecamente misogina degli anni zero, rappresentata dall’inconsapevole strafottenza dei paparazzi intervistati, si sostituisce oggi un fandom grassroot (cioè dal basso), mentre la rilevanza della carta stampata e dei media tradizionali cede il posto ai social. Sono gli animatori del movimento #FreeBritney, molti dei quali nemmeno erano nati ai tempi di Baby One More Time, e oggi devoti alla causa di “liberare” la popstar. A motivarli, dichiarano, è proprio ciò di cui ai tabloid non frega nulla, cioè il benessere e la salute mentale della diva. Ma - sebbene i dubbi sulla legittimità del caso legale Spears siano fondati, e gli allarmi lanciati da fonti più che autorevoli - le modalità con cui si muovono gli adepti di #FreeBritney non sono dissimili da quelle di QAnonisti o altri sostenitori di fantasticherie cospirazioniste: Britney Spears non è più un idolo da adorare o infangare, ma un enigma da sciogliere - e una battaglia da combattere -, decifrando i suoi post su Instagram, individuando “indizi” nei suoi generici messaggi motivazionali, scambiandosi teorie su Reddit o nei podcast. È, di nuovo, una narrazione, questa volta reticolare e interattiva; è ancora intrattenimento, ancora - e sempre di più - indissolubile dalla nostra percezione della realtà.