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Editoriale 42/2025
Psycho killer, qu'est-ce que c'est?
C’è una sequenza in Il mostro di Roberto Benigni in cui il personaggio di Nicoletta Braschi prova ogni escamotage per far scattare la libido del protagonista, sospetto serial killer per un classico gioco di equivoci: la donna prende a girare per casa in lingerie assumendo pose da contorsionista, costringendo Benigni all’angolo, a distanza ravvicinata con le grazie femminili. Per chi scrive, si tratta di uno dei momenti maggiormente perturbanti di tutto il cinema “brillante” degli anni 90 (ebbi anche l’ardire di confessare a Nicoletta Braschi quanto quel frammento sia stato parte della mia “educazione sentimentale”, per dirla con il nostro governo). La figura femminile di Il mostro come la Adeline del recente, abissale Monster: La storia di Ed Gein di Ryan Murphy e Ian Brennan? Il personaggio della “fidanzata” del maniaco, che si fa suggeritrice e in qualche modo complice dei delitti e delle “perversioni” dell’uomo (necrofilia compresa) per via della sua morbosa curiosità nei confronti della morte e del macabro (è lei a iniziare Gein alle fotografie degli orrori nazisti e alla storia della torturatrice SS nota come “la cagna di Buchenwald”), è probabilmente la figura più contemporanea dell’abituale galleria di freak che abita questa nuova creatura seriale degli autori di Dahmer. Non a caso, Adeline è interpretata dalla Strawberry del magnifico Red Rocket di Sean Baker, Suzanna Son: da un lato, l’Ed Gein della serie Netflix trasferisce con ogni evidenza sulla ragazza il bisogno di una guida femminile forte, ruolo fino ad allora affidato alla “voce della madre” - dall’altro, però, e senza andare troppo per il sottile (come da abitudine per Murphy e soci), Adeline siamo chiaramente noi spettatori, quasi a dimostrare l’assunto messo in bocca a Tobe Hooper sulla nostra assuefazione al fruire quotidianamente contenuti sempre più violenti e inaccettabili (lucidamente, Ilaria Feole nella sua recensione sul n. 41/2025 la pone a dichiarazione programmatica dell’intera operazione). Ma fruire passivamente, per quanto in esclusiva, in prossimità come Roberto Benigni in Il mostro, non basta più: se è vero che Murphy e Brennan hanno voluto fare una serie “nascosta” sull’oggi, che parte dalle torture nei lager nazisti e arriva agli anni 2000, allora lo è innanzitutto perché racconta quanto l’atto di vedere con i propri occhi, per dirla con Stan Brakhage, comporti già una prima modifica attiva, soprattutto in un’epoca come la nostra in cui è così semplice modificare un contenuto già mentre lo si sta guardando. È l’abisso intuito dall’Alfred Hitchcock di Murphy quando entra in sala a vedere gli epigoni di Psyco. Riuscire a leggere cosa ci sia di fronte ai nostri occhi è ormai impossibile, sembrano tutte dune col nulla dall’altra parte, come nel finale di Una battaglia dopo l’altra. Bisogna chiedere un riconoscimento umano a quello che vediamo, un captcha come fa Willa con il padre che le si staglia di fronte nel film di P.T. Anderson. «Sei troppo calda», dice Ed Gein ad Adeline, colpevole di non essere un cadavere. E allora bisogna fare alla ragazza un bagno nel ghiaccio, per raffreddarne la temperatura vitale: “frenate i bollori”, come sembra dire il fotografo Weegee al cospetto delle foto di corpi squartati di Adeline. Una foto di Weegee del 1940 è in copertina al primo disco dei Naked City di John Zorn: della furibonda musica che errava tra generi “alti” e “bassi” contenuta in quell’album si dicevano all’epoca le stesse cose che si dicono oggi delle opere di Murphy.