Kate Miller è in cura dal dottor Robert Elliott per disturbi legati all’insoddisfazione sessuale. Un giorno la donna viene brutalmente assassinata a rasoiate da un individuo misterioso. Al delitto assiste soltanto Liz Blake, una giovane squillo che vede l’assassino: una donna bionda. Liz, sconvolta, raccoglie da terra il rasoio insanguinato ed è, per questo, fortemente sospettata dal tenente di polizia Marino, incaricato di fare luce sul caso. Ben presto l’indagine prende una piega imprevista e agghiaccianti verità vengono a galla. Rivisto oggi (soprattutto da Femme fatale in poi), Vestito per uccidere conferma quanto il punto di vista di Brian De Palma sia fondamentale per decifrare l’immaginario postmoderno e contemporaneo. Quando uscì, nel 1980, la riflessione del cinema sul cinema non era una novità, ma non era neppure codificata. E De Palma, attraverso il legame con Alfred Hitchcock o tramite il riferimento a situazioni e linguaggi già sperimentati altrove (non solo nei film), cominciò a costruire un genere nel genere. Vestito per uccidere è stato in questo senso in anticipo sui tempi, quindi non del tutto compreso. Tra l’altro, è per questa pellicola che è stata usata per la prima volta la parola “trash”, esplicitando un certo rifiuto spettatoriale e critico coevo. Altro che spazzatura: De Palma è riuscito a trasformare una materia che poteva essere “fredda” in una narrazione calda. Il metacinema che si fa racconto e si srotola di fronte ai nostri occhi per quasi due ore di puro, magico inganno filmico.