Quale soggetto migliore del bradipo per un autore che ha frequentato lo slow cinema? Rivers inquadra il mammifero più lento in pianisequenza che trasformano l’animale in installazione artistica e in un tenero musical statico a tempo di Unchained Melody.
Lo spazio tra due mondi
Lo spazio tra due mondi
MUBI
Forse non tutti lo sanno, ma Robert Bresson esordì con un film comico, Les affaires publiques (1934). Perché vi racconto questo, mentre mi accingo a parlare del cinema di Angela Schanelec? In primis perché è una delle pochissime cineaste, oggi, a seguire l’insegnamento di Bresson (gli altri? Kaurismäki e Dumont, fino a poco tempo fa il povero Brisseau). E poi perché nel suo cinema, in maniera maggiormente sottile che in quello di Kaurismäki, è chiaro il legame tra i dettami del francese e il cinema comico. Non fanno ridere, i film di Schanelec. Ma mettono in luce, negandolo radicalmente, il funzionamento del cinematografo, la sua ideologia, esattamente come farebbe una parodia. Un film di Zucker-Abrahams-Zucker, per dire. E badate: non è questione di temi e figure, è un fatto puro e semplice di linguaggio. Come in gran parte dei film comici il La è il disorientamento, un trovarsi fuori luogo (anche i film di Antonioni possono essere comici, ed è stupido pensare sia un difetto), e il punto aurorale del suo cinema è un impaccio, un imbarazzo, una caduta, una rottura. Non tanto quella che subiscono i protagonisti, ma quella che sperimenta lo spettatore. È chiaro, di fronte a questi film, che il comico non sia tanto un genere, ma una filosofia, lo squarciamento del velo di Maya delle nostre aspettative, dei modi in cui prevediamo i film, di quelli in cui lo sceneggiamo, montiamo, ascoltiamo. E se i film sono una visione del mondo, sì, è anche una questione ideologica, una questione - che parola abusata - politica. Di come vediamo il mondo, di cosa dal mondo ci aspettiamo. Il cinema, asciugato da tutto (cioè Bresson), è comico: una questione di tempo, di ritmo, di sguardo spostato, spaesato, di gerarchie rivoluzionate. Perché, secondo voi, uno dei registi maggiormente radicali del cinema contemporaneo, Bruno Dumont, è passato dall’intransigenza di L’umanità (che su MUBI potete vedere) all’esplicito slapstick lombrosiano di Ma Loute e P’tit Quinquin? Ecco, i film di Schanelec, che non funzionano come il cinema che conosciamo, ci aiutano a capire meglio come vediamo. Cosa siamo abituati a volere dai film. Su MUBI trovate Passing Summer (2001), Marseille (2004), Afternoon (2007) e The Dreamed Path (2016), gli ultimi due con sottotitoli in italiano, un buon prelievo della filmografia di questa regista associata dalla letteratura critica alla Berlin School. Sono opere laconiche, in cui mancano scene madri, in cui succede poco o nulla, in cui i personaggi non si presentano allo spettatore con una storia (semmai la loro storia è negli spazi, nei dettagli, nelle lacune): sono surreali proprio perché sono contro la nostra abitudine al realismo. Sono bressoniani per nitore, per mancanza d’orpelli, sempre contro l’interpretazione (dell’esegeta, ma anche dell’attore: «Recitare non è cercare un sottotesto o il senso nascosto. Recitare non è interpretare»). In tutto questo vuoto, l’importante finisce per essere la luce, la relazione tra i corpi e gli spazi, il gesto del presente. Schanelec si discosta da Bresson per una questione cruciale. Se per il francese il punto è il rapporto tra il campo e il fuoricampo, per la tedesca è quello tra due mondi: il passato e il presente, il reale e il sognato, il vero e il possibile. O tra due personaggi che non si conoscono. Nel giustapporre le cose, come i film-saggio di Farocki han imparato dai sovietici. Non c’è nessuna didascalia: è lo spettatore che può scegliere d’orientarsi, dentro lo spazio lasciato da tutte queste ellissi, di fare confronti tra tutti questi frammenti al presente, pieni di storie solo immaginabili. «Non devi capire, puoi solo vedere», dice Schanelec. I suoi film dicono che il cinema può anche essere altro. Non lo so se a un film si possa chieder di più.
I magnifici sette
A cura di Ilaria Feole
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