Topi, statue e vecchi film

Servizio pubblicato su FilmTv 24/2020

Topi, statue e vecchi film


Analizziamo la polemica intorno a Via col vento, momentaneamente rimosso da HBO Max per le accuse di rappresentazione razzista.

OGGI NESSUNO RAPPRESENTEREBBE LA GEORGIA DEL 1861 COME FECE VIA COL VENTO NEL 1939. Da qua a dire che il film prodotto da David O. Selznick è “razzista” forse ce ne vuole. Di certo non è razzista nello stesso senso di Nascita di una nazione (1915) di Griffith, con la sua esplicita, repellente glorificazione del Ku Klux Klan. Possiamo non essere d’accordo quando Spike Lee accosta provocatoriamente questi due film nel prologo di BlacKkKlansman. Ma dovremmo sapere, dopo tanti anni, che esiste anche un razzismo travestito da paternalismo, che predica l’immobilismo sociale e perpetua certi stereotipi, inducendo a certi habitus mentali: i neri sono amabili e da difendere quando si comportano da fedeli servitori dei bianchi o li divertono suonando la loro musica e primeggiando negli sport; molto meno quando scendono in strada per reclamare giustizia e pari opportunità. Fatto sta che, con mossa clamorosa, la HBO ha rimosso Via col vento dallo streaming in attesa di riproporlo con adeguata contestualizzazione. Si tratterà di un semplice disclaimer, come quello che leggiamo aprendo un dvd dei Looney Tunes («I cartoni che state per vedere sono un prodotto del loro tempo. Potrebbero descrivere pregiudizi etnici e razziali comuni nella società di quel tempo… Erano sbagliati allora e sono sbagliati anche oggi»)? Ci sarà un dibattito a latere? Nessuno ha censurato niente. Ma l’Occidente libertario e i cinefili illuminati si sono stracciati le vesti. E si chiedono: la prossima volta a chi toccherà? A Ombre rosse di John Ford, per la rappresentazione dei nativi americani? Tutto ciò mentre le manifestazioni di protesta per l’assassinio di George Floyd hanno preso di mira statue dedicate a personaggi storici accusati di razzismo, che sono state imbrattate (Winston Churchill) o buttate direttamente nel fiume (lo schiavista Edward Colston).
La questione è complessa ed essere lucidi sembra difficile, ma proviamoci. È da trent’anni che i fautori del politically correct trovano fieri oppositori (la prima edizione originale di La cultura del piagnisteo di Robert Hughes è del 1993), pronti a condannare ogni revisionismo in nome di valori come la libertà di espressione e i diritti dell’arte. In I tre porcellini di Walt Disney (1933) il lupo cattivo si traveste da viscido venditore di spazzole ebreo? Sono vetusti modelli iconografici che vanno visti nel loro contesto, ci spiegano gli alfieri della nuova tolleranza. Oggi siamo diversi, certo, ma saremmo dei talebani a censurare quelle antiche rappresentazioni che non ci indignano più, perché nel frattempo siamo diventati migliori. Anche perché dove finiremmo, a furia di censurare tutto quanto è scorretto? A bandire l’Otello di Shakespeare? O il Cantico dei cantici per i versi «nigra sum sed formosa»? Lo stesso vale per le figure della Storia. Churchill ha usato qualche espressione un po’ colorita riguardo agli indiani? E vabbe’, ci ha salvato dal nazismo, non facciamone una tragedia.
C’è da dire che i paladini del politically correct, che insorgono contro gli stereotipi nei vecchi film e che imbrattano le statue di Churchill e di Indro Montanelli (che comprò una ragazzina eritrea di 12 anni per soddisfare le sue voglie, e quarant’anni dopo se ne vantò), a volte non sono molto simpatici. Ultimamente hanno avuto una piattaforma mediatica davvero potente, quella di #MeToo, incorrendo però in vari eccessi - vedi il linciaggio di Woody Allen. Spesso fanno la figura di chi dà la caccia alle streghe (curioso come la metafora abbia cambiato di segno: nell’epoca del maccartismo le streghe erano i rossi, oggi è il contrario). E in certi casi sono oscurantisti belli e buoni: come quando, con doppio salto mortale, riescono a coniugare femminismo e difesa degli integralisti islamici.
Come al solito nessuno ha ragione al cento per cento, e da entrambi i lati con l’acqua sporca si butta via quanto ci può essere di sensato. Ma i disclaimer sui vecchi disegni animati sono sacrosanti. Il modo in cui sono rappresentati i messicani in Speedy Gonzales - topi fannulloni e festaioli - è offensivo. Punto. Lo stesso vale per gli italiani mangiaspaghetti e impomatati di tanti cartoon, e per il lupo cattivo con barba e nasone. Vanno censurati, tagliati, bruciati? No di certo. Il passato non si censura. Non si pretende che non sia esistito. Casi estremi come Nascita di una nazione e Süss l’ebreo non vanno proiettati in piazza, ma studiati e custoditi in un ideale museo degli orrori. Chi ha visitato i musei dell’Olocausto a Berlino e a Gerusalemme ricorderà, nelle prime sale, i giocattoli, pupazzetti e giornalini con una rappresentazione grottesca degli ebrei. “Innocue” suppellettili, sintomo in realtà di un pregiudizio diffuso, e che hanno spianato la strada al peggio. Non sto dicendo che Speedy Gonzales abbia preparato il muro di Trump, ma oggi non possiamo più fare finta di niente. E soprattutto, noi bianchi occidentali dobbiamo ricordarci che, dopo secoli di colonialismo, il mondo non gira più attorno a noi. Tutti coloro che si sono scandalizzati per le accuse di razzismo a Winston Churchill non sanno (o fanno finta di non sapere) che cosa sir Winston ha combinato in India. Andate a chiedere a un indiano cosa pensa di Churchill. Vi parlerà di stragi, genocidi, responsabilità in carestie con milioni di morti. E sai quanto importa a un indiano che sir Winston ha salvato te, europeo, da Hitler.
I parametri culturali cambiano. E non sempre in peggio. Francamente, se devo capire cos’era l’America del XIX secolo, 12 anni schiavo è più utile e realistico di Via col vento. Non indigniamoci se qualcuno si indigna e fa mettere un disclaimer. Non facciamo finta che il passato sia passato. Come sapeva bene William Faulkner, non lo è.

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