Black cinema - Potere nero

Servizio pubblicato su FilmTv 14/2021

Black cinema - Potere nero


On demand dal 9 aprile 2021, Judas and the Black Messiah è il biopic candidato a sei Oscar che ricostruisce la storia di Fred Hampton, leader delle Black Panther di Chicago.

L'ultimo capitolo della tragedia americana, ossia cos’è davvero la più avanzata democrazia al mondo, sarà il processo per l’esecuzione di George Floyd. Vedremo se, dopo Rodney King, i poliziotti - i “porci”, come li chiamavano i militanti del Black Panther Party - e chi li radiocomanda saranno di nuovo assolti. Anche nel caso di Fred Hampton, al centro di Judas and the Black Messiah, se la cavarono con un patteggiamento milionario (12 anni dopo i fatti). Mohammad bin Salman Al Sa’ud non è il solo impunito pubblico. Sul finire della Seconda guerra mondiale, un minacciato sciopero dei lavoratori neri delle carrozze letto, che avrebbe fermato il paese, spinse F.D. Roosevelt a legiferare per la dignità e l’eguaglianza degli afroamericani, almeno per quanto riguardava educazione e smantellamento dell’apartheid. Ma il successore democratico di Roosevelt, Harry “bomba atomica” Truman, bloccò il processo e innestò come reazione un forte (e represso) movimento per i diritti civili, guidato da Martin Luther King (assassinato nel 1968), che terrorizzò e fece vacillare il “razzismo istituzionale”, ovvero il meccanismo fondato sulla violenza poliziesca che permette al sud (e rende funzionale al nord) degli Usa di sospendere lo stato di diritto, eliminare le spese sociali, impoverire i ghetti ricattandoli con la droga, impedire il voto nero, azzerare il costo del lavoro... Dal Proclama di emancipazione di Lincoln, 1863, «circa 5.000 neri sono stati linciati senza che uno solo degli assassini sia stato portato davanti al tribunale e condannato» (Ultimi discorsi di Malcolm X). Oppressi, impoveriti, “scartati” i ghetti di Watts, Harlem, Detroit e altre città insorsero, e dopo i due Kennedy, i fratelli Soledad, il campus di Kent, i Weather Underground, il movimento di coscienza nera e del “black is beautiful” passò dal pacifismo all’autodifesa armata. Il Black Panther Party diventa il pericolo n. 1 secondo l’FBI di Hoover. Incriminazioni illegali, arresti immotivati, provocazioni, fango mediatico (che insudicia anche i media italiani, che identificano da allora BPP con criminalità comune), informatori, controspionaggio per fermare l’insorgenza di un “messia nero”. Il carismatico Fred Hampton, già a 19 anni segretario delle Pantere di Chicago, è un blues brother che «li odia i nazisti dell’Illinois». E per questo va giustiziato. Alle 4.45 del 4 dicembre 1969 14 poliziotti in borghese (9 bianchi, 5 neri) freddano il suo corpo già narcotizzato dalla spia O’Neal. Mandante? Il procuratore di stato, il democratico Edward V. Hanrahan (poi assolto). Che, incredibile, cercava «armi illegali» in casa Hampton. Grande organizzatore, oratore affascinante, ideatore di programmi di colazioni gratuite per i bimbi del ghetto, anche ispanici e bianchi, Hampton aveva trasformato il West Side di Chicago nella capitale mondiale della rivoluzione transetnica. Da allora le cose sono peggiorate. Fino a Trump, la rivincita dopo la “provocazione Obama” che scatena i suprematisti col distintivo. Dal 2013 al 2019 la polizia ha ucciso 7.663 persone (“Washington Post”). Neri e ispanici poveri, perlopiù. Ecco perché con Black Lives Matter le statue stanno saltando in aria.

  • I figli della rivoluzione

    «Sono un rivoluzionario!» proclama Fred Hampton nel suo discorso più celebre, rievocato in una scena di Judas and the Black Messiah. C’è chi, come Hampton, cerca di smuovere le coscienze con la parola (e con le armi), e chi con le immagini. Il 6 agosto 1969 - meno di quattro mesi prima che l’FBI uccida nel sonno il leader del BPP - esce in sala Ragazzo la tua pelle scotta di Gordon Parks, primo film prodotto da una major diretto da un afroamericano. Se Parks ha alle spalle la Warner, e con i primi due Shaft scala il botteghino, altri si muovono ai margini dell’industria, per scelta e per necessità. Dopo aver speso i soldi della Columbia per girare L’uomo caffelatte - storia di un bianco razzista che un giorno si risveglia non sotto forma di scarafaggio ma, cosa ben peggiore, con la pelle nera -, Melvin Van Peebles produce in proprio, interpreta e dirige Sweet Sweetback’s Baadasssss Song (1971), di cui cura anche montaggio e musica. Un film rivoluzionario nello stile, frenetico e guerrigliero, e nei temi, con protagonista una specie di Cuchillo di colore, in perenne fuga dai poliziotti e amico delle Pantere nere, per le quali diverrà un cult. Il film di Van Peebles, tra le altre cose, si fa vanto di una delle qualità dell’uomo nero che più fanno paura all’uomo bianco - vedi il discorsetto che J. Edgar Hoover (Martin Sheen) fa all’agente Mitchell (Jesse Plemons) nel film di Shaka King - e che diventa esagerazione grottesca nel famigerato Welcome Home Brother Charles (1975) di Jamaa Fanaka, il cui protagonista utilizza il proprio smisurato membro virile per strangolare chi lo aveva fatto imprigionare ingiustamente. Fanaaka è uno dei nomi del movimento L.A. Rebellion: film girati con mezzi minimi, orgogliosamente anticommerciali, da cineasti diplomatisi alla UCLA come Haile Gerima (Bush Mama, 1976: storia di un reduce dal Vietnam che al ritorno in patria finisce in galera, tra cinéma vérité e sprazzi godardiani) o Charles Burnett (lo straordinario Killer of Sheep, 1977: squarci di vita grama nel quartiere di Watts in uno sgranato bianco e nero e con canzoni di Paul Robeson, Cecil Gant e Dinah Washington). Ma il cinema black è vasto, contiene moltitudini. Già scrittore, commediografo e sceneggiatore di vaglia (Il padrone di casa, di Hal Ashby), con le sue tre regie Bill Gunn mette a soqquadro coordinate e aspettative. Stop! (1970), prodotto dalla Warner, è una specie di versione delirante e bisex di Bob & Carol & Ted & Alice con grandi musiche di Ry Cooder; Ganja & Hess (1973), rifatto da Spike Lee nel 2014 con Il sangue di Cristo, mette in scena la ricerca delle proprie radici nelle forme di una criptica storia di vampiri; e il fluviale Personal Problems (1980), nato come soap radiofonica e semi improvvisato, si avvale di una penna illustre come Ishmael Reed. Con Symbiopsychotaxiplasm: Take One, William Greaves annusa i venti della nouvelle vague e scardina le regole del cinéma vérité. Un regista nero (lui stesso) gira un film a Central Park, facendo avvicendare diversi attori negli stessi ruoli, mentre una seconda troupe riprende il dietro le quinte e una terza spia i colleghi intenti nel making of. Non è solo questione di acrobazie metafilmiche (mai cervellotiche, spesso divertenti): nello svelare maliziosamente le incomprensioni tra un cineasta che si crede geniale ma forse è solo velleitario e una troupe che medita l’ammutinamento, Greaves evoca il confuso ribollire in atto là fuori, in pieno Sessantotto. Ed è rivoluzionaria, più di tutti, Kathleen Collins. Il suo Losing Ground (1982), primo lungometraggio diretto da una afroamericana, adotta un approccio doppiamente destabilizzante, femminile e da dramedy medioborghese, raccontando - con toni che, da una prospettiva biancocentrica, diremmo alleniani - la crisi matrimoniale tra una prof di filosofia che recita nel film di un allievo e si innamora del partner (Duane Jones), e il marito (ancora Gunn) pittore di successo dai capricci bohémien. In comune, per costoro, un destino avverso. Stop! resta inedito, e oggi è visibile solo in copie pirata; Ganja & Hess viene rimontato arbitrariamente e spacciato per un horror qualsiasi; Symbiopsychotaxiplasm: Take One è condannato a decenni di oblio dalla negligenza (narra la leggenda) di un proiezionista che sbaglia l’ordine dei rulli provocando il fuggi fuggi dei potenziali compratori in quel di Cannes. Neppure Losing Ground viene distribuito, e la Collins muore di cancro a 46 anni, nel 1988. Il tempo però a volte è galantuomo. Steve Buscemi e Steven Soderbergh ripescano dall’oblio il film di Greaves, che oggi è di tendenza, tanto è vero che lo cita anche Charlie Kaufman nel suo romanzo Antkind. Nel 2018 l’Academy attribuisce un premio onorario a Charles Burnett. Ganja & Hess trova meritata gloria, restaurato in Blu-ray. E Ishmael Reed celebra Gunn sul sito Criterion con un intenso tributo all’«artista nero che Hollywood non è riuscito a comprare». Quella Hollywood che oggi si appropria con toni da santino di Fred Hampton e del suo personal Judas.

    Roberto Curti
  • Black voices matter

    Judas and the Black Messiah ha già fatto la storia del cinema, almeno sul fronte dell’Oscar: è la prima nomination a miglior film per una squadra di produttori all black; ed è la prima volta che due attori neri vengono candidati per lo stesso film. Il “Giuda” LaKeith Stanfield e il “messia nero” Daniel Kaluuya si contendono il premio per il non protagonista, e per entrambi è la consacrazione di carriere vivaci e promettenti, che già si erano incrociate all’altezza di Scappa - Get Out: Kaluuya, londinese, gamma espressiva guizzante di ironia ed empatia, è passato dalle (ottime) serie inglesi (Skins, The Fades, Black Mirror) alle produzioni Usa (Sicario), mentre il californiano Stanfield (anch’egli volto televisivo, della mai abbastanza lodata Atlanta), a suo agio nei registri più surreali, si è fatto notare in ruoli grandi (Sorry to Bother You) e piccoli (Diamanti grezzi, per dirne uno). Il biopic di Shaka King è un banco di prova che ha offerto ai due giovani attori l’arma a doppio taglio del mimetismo: Kaluuya ha lavorato con la coach Audrey LeCrone per riprodurre l’accento di Fred Hampton, mentre Stanfield ha dichiarato di aver avuto bisogno di fare psicoterapia una volta uscito dai panni dell’infiltrato Bill O’Neal (morto suicida nel 1990). In questo caso, però, non è (soltanto) questione di performance acchiappa-premi e di perfezionismo attoriale: il lavoro compiuto da Kaluuya e LeCrone sulla voce di Hampton è stato minuzioso, non nella direzione di un calco imitativo (anzi, si è optato per un rallentamento della parlata del leader, i cui discorsi mitraglianti rischiavano di far perdere al pubblico qualche parola), ma con l’intento di riprodurre il ritmo, l’incisività, l’urgenza veicolata dalle sue memorabili arringhe. Nel film, con una dichiarazione quasi metatestuale, Hampton è mostrato nell’atto di ascoltare e mandare a memoria celebri speech di Malcolm X, ascoltati fino a consumare i dischi, perché di figure come lui e come Martin Luther King è soprattutto la voce a essere rimasta viva e a essersi impressa nell’immaginario, la cadenza e il volume della loro deflagrante arte oratoria, la rivendicazione identitaria che passa anche dal tono, dal timbro e dallo slang della voce nera. Ridare voce a questi personaggi (lo stesso valga per il Malcolm X di Quella notte a Miami... e della serie Godfather of Harlem) non è solo questione di overacting: significa rimettere in circolo la potenza di quelle parole, portarle a un volume più alto del rumore di fondo mediatico e chiedere di prestare loro ascolto.

    Ilaria Feole

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