Hunters

«Non tutti i bianchi sono nazisti, ma tutti i nazisti sono bianchi». È da questo sillogismo claudicante che deve aver preso le mosse il bislacco nucleo embrionale della serie di David Weil: Hunters costruisce su un contrasto stridente non solo le sue premesse narrative - ebrei sopravvissuti ai lager + simil-black panther danno la caccia ai gerarchi del fu terzo Reich -, ma anche la giustificazione per uno sbandierato pluristilismo. Siamo a Brooklyn, nel 1977, ma nessun immaginario è troppo estraneo, e nessun prestito troppo manifesto: se lo squadrone di giustizieri ebrei vi ricorda certi bastardi, frammenti rimasticati di Tarantino & Co. riaffiorano nelle sequenze più pulp (sì, c’è persino una sexy suora assassina); l’estetica Seventies raccatta dai Bee Gees, e giustifica persino un’indicibile sequenza musical in stile febbre del sabato sera (che termina con un’epifania a Coney Island: ogni riferimento a Jordan Peele, produttore esecutivo, è puramente casuale?); ancora, ci sono Batman e Leni Riefenstahl, l’heist movie e il cinema dell’Olocausto, La caduta degli dei e le teorie del complotto. Ci si appella alla tolleranza dello spettatore, si campa di quella specie di sconcerto che si trasforma a volte in piacere di guardare. Ma forse si chiede troppo: mandar giù una (sacrosanta) retorica intersezionale che sa qui di facciata - la detective donna nera lesbica e pure cazzuta -, e mettere a tacere la memoria storica di fronte a irriferibili parentesi exploitation tra le baracche di Auschwitz. Grazie, siamo a posto così.