La distopia è quello che c'è già

Servizio pubblicato su FilmTv 19/2020

La distopia è quello che c'è già


Abbecedario distopico

Quali sono le parole chiave dell’immaginario distopico contemporaneo? E, soprattutto, cosa significano? Ne abbiamo scelte sette, che riassumono e innescano i dibattiti attuali sul nostro futuro prossimo, e le abbiamo cercate dentro cinema e serie tv.

  • Antropocene

    Di che cosa parliamo quando parliamo d’antropocene? L’immagine che la parola evoca, per quanto innervata nel dibattito contemporaneo, è confusa. Ricorrere all’etimologia può dirimere qualche incertezza: il termine coniuga il vocabolo greco ánthropos (“essere umano”) con il suffisso “cene”, che proviene da kainos, col significato di “nuovo” o “recente”, per suggerire l’ingresso in una nuova epoca dominata dall’attività umana. L’accelerazione tecnologica ha reso talmente rilevante la nostra azione sull’ambiente che non possiamo non considerarci (come dimostra Antropocene - L’epoca umana di Baichwal, Burtynsky e De Pencier, su Chili e Rakuten) agenti geologici impattanti sulla struttura della Terra. Tuttavia, sostiene l’antropologo Amitav Ghosh (autore di La grande cecità - Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza), non solo siamo ciechi di fronte alle trasformazioni, ma chi dovrebbe raccontarle - scrittori, divulgatori, artisti in generale - le ignora. O inizia a occuparsene con ritardo. È quello che è successo con Chernobyl (al centro dell’omonima serie creata e scritta da Craig Mazin e diretta da Johan Renck, su Now Tv e SkyGo), la catastrofe di fronte alla quale si è compreso, come ha scritto Giuseppe Genna, che «non c’è più un luogo del disastro, il disastro è ovunque» e che ci ha proiettati in «una nuova natura, che non è più naturale, ma modificata, cancerogena». C’è necessità di ripensare completamente il fare umano nell’era dell’«impatto umano definitivo»: è quello che documenta Michael Madsen in Into Eternity: A Film for the Future dopo aver scoperto, in Finlandia, il primo deposito di scorie nucleari, sepolto nel cuore della terra, destinato a durare 100 mila anni. La domanda che sta alla base del film è: come avvertire chi ci sarà dell’enorme pericolo nascosto dentro la roccia? Perché il pianeta presenta una complessità maggiore delle nostre capacità predittive, ce l’hanno raccontato film come E venne il giorno di M. Night Shyamalan (Chili, TIMVISION) e La quinta stagione di Jessica Woodworth e Peter Brosens (Chili), che riflettono attorno alla riformulazione della comunità in un contesto in cui l’antagonista è l’ambiente. Per l’antropologo Matteo Meschiari, autore di La grande estinzione - Immaginare ai tempi del collasso (Armillaria), siamo arrivati a un punto in cui bisogna compiere un cambiamento di paradigma, tentare di avere un punto di vista “inumano” sulle cose, ipotizzare un possibile scenario futuro come accade in Apocalisse nel deserto di Werner Herzog (Chili) e in Homo Sapiens di Nikolaus Geyrhalter, dove si prova a capire cosa rimarrà delle nostre esistenze dopo che ce ne saremo andati. 

    Matteo Marelli
  • Controllo e trasparenza

    C’era una volta una narrazione diffusa, sulla paura di quel che avremmo potuto attenderci dal governo, specialmente degli Stati Uniti d’America, in termini di controllo delle nostre vite. Harry Caul, professionista della sorveglianza e poi vittima di un esemplare contrappasso, che in La conversazione smonta la casa in cerca di una cimice che non c’è, è figlio del caso Watergate e dell’attività di spionaggio su cittadini invisi al potere, praticata dagli uomini di J. Edgar Hoover. Ma proprio mentre tutti alzavano gli scudi per proteggersi dalla minaccia “dall’alto”, sotto se ne insinuava una più subdola, quasi invisibile agli occhi. Mentre noi utenti di internet elargivamo entusiasticamente dati, attraverso pollici su Facebook e ricerche su Google, il nostro surplus comportamentale, ossia i detriti lasciati dalla nostra attività di internauti, andava ad alimentare algoritmi di estrazione sempre più potenti. Il fine ultimo, spiega con dovizia di elementi e di ricostruzioni storiche Shoshana Zuboff in Il capitalismo della sorveglianza (LUISS University Press), è la capacità di predire ciò che faremo e dove andremo domani, con una percentuale di errore minima. Un panorama assai più distopico di quello delle cimici del vecchio Hoover e, diversamente da allora, mascherato sotto i panni del progresso e dell’opportunità di comunicazione in forme nuove e più efficienti. Una minaccia invisibile in quanto cosparsa di microcamere, come ha sintetizzato alla perfezione Leigh Whannell nel recente L’uomo invisibile (su Chili, Rakuten, TIMVISION, vedi Film Tv n. 14/2020), assurto, anche grazie alla coincidenza dell’uscita in pieno lockdown, a film manifesto di questa sfortunata era della sorveglianza e summa delle fobie che più affliggono la contemporaneità. Nello stesso periodo è uscito on demand (ma non in Italia) anche Vivarium di Lorcan Finnegan (ne riparliamo sul prossimo numero), altro lavoro ad alto tasso di distopia, a metà strada tra un episodio di Ai confini della realtà e un Pleasantville sci-fi e pessimista. Una coppia felice in cerca di prima casa, interpretata da Imogen Poots e Jesse Eisenberg, finisce inconsapevolmente per consegnarsi a un ignoto esperimento. Come polli in batteria, prigionieri di un nemico invisibile, i due combattono una cattività senza speranza, soli, senza nemmeno sapere se le altre villette a schiera, identiche alla loro, contengano altrettanti sfortunati compagni di detenzione. Una chiara rappresentazione della “vita nell’alveare” a cui ci costringono i social network: un insieme di solitudini incapaci di comunicare senza filtri, prive di vista parietale, ma costantemente osservate da un occhio occulto. Un panopticon 3.0, senza via di scampo. A Truman Burbank, tutto sommato, non era andata così male.

    Emanuele Sacchi
  • Fine dell'empatia

    Che cosa porta Arthur Fleck a diventare Joker, nel film di Todd Phillips (su Chili, TIMVISION, Infinity)? La mancanza di attenzione da parte del mondo che ha intorno. L’assenza di cura da parte del sistema sanitario. E poi, certo, un sogno malriposto: quello di diventare uno stand-up comedian, di avere un palcoscenico in cui farsi applaudire, per nessun talento. La solitudine, insomma. E il narcisismo, suo malgrado. In un celebre studio del 2010 (Changes in Dispositional Empathy in American College Students Over Time: A Meta-Analysis) si sosteneva che la capacità di mettersi nei panni di un altro e preoccuparsi empaticamente per questo, da parte di un campione di studenti universitari nell’anno 2009, era ridotta del 75% rispetto a quella di un corrispettivo del 1979. Sherry Turkle, in un libro che continuiamo a citare come La conversazione necessaria (Einaudi), individua come la decrescita di empatia parta prima di tutto dall’incapacità di leggere le emozioni, il lato implicito, non comunicato a parole, nascosto dietro le conversazioni vis à vis: il frutto di una socialità che predilige la chat alla chiacchiera, la comunicazione all’ascolto, la distrazione all’attenzione. E mentre gli psicologi si chiedono se i millennial siano una generation me (dal titolo di un libro di Jean M. Twenge, autrice anche di The Narcissism Epidemic) o una generation we (data la capacità di questa fascia anagrafica di ampliare lo spettro di tolleranza e messa in discussione dei propri privilegi), il cinema sembra scegliere il lato negativo, prediligendo un punto di vista moralistico e distopico sul presente: abbiamo perso il conto dei film in cui i protagonisti sostengono di «non sentire niente» (da Nymph()maniac fino a Ad Astra, entrambi su Chili, TIMVISION e Rakuten) e dei film sul narcisismo patologico (e qui ne cito tre, per tutti, perché sono capolavori: The Canyons, Anomalisa e Il filo nascosto, da rileggere alla luce del controcanto Fetch the Bolt Cutters, l’ultimo disco della ex compagna di Paul Thomas Anderson, Fiona Apple), ma è naturale che dietro questa visione negativa trovi habitat anche il cinema dell’homo homini lupus (The Hunt - su Chili, Infinity, TIMVISION - è l’ultimo esempio) e soprattutto dell’assenza di solidarietà tra classi (con Parasite come titolo emblematico: la lotta di classe verticale, da anni, è divenuta semplice scontro nella classe, tra eguali). Così finisce che il cinema, oggi, racconti soprattutto di individui soli, imprenditori di se stessi, abbandonati a se stessi, chiusi su se stessi: incapaci di sentire e comprendere l’intorno, occupati a sopravvivere tra gli squali. Pardon: i pari. 

    Giulio Sangiorgio
  • Gamification

    Cos’è la gamification? Il ricorso a meccanismi tipici del videogioco (punti, classifiche, livelli, premi etc. etc.) in contesti non inerenti al mondo videoludico. Nel lavoro, per esempio. Nella guerra. O in ogni ambito della vita. Vi ricordate eXistenZ di David Cronenberg? Ecco. Avete fatto i vostri 10 mila passi, oggi, come consigliato dalle app studiate per il nostro benessere? E quanti punti, o like, o cuoricini, o abbracci coccolosi, o match di Tinder avete raggiunto ieri? È meglio chiedersi chi siamo o quanto siamo? A quale punteggio siamo arrivati? A quale livello di popolarità? La realtà virtuale come giocoso palliativo alla miseria del reale è storia antica, e cinema e serialità continuano a rinverdire l’infausta tradizione: pensate al rapporto tra il mondo degradato in cui vivono i protagonisti di The Congress o di Ready Player One e allo sfavillio (cartoonesco, retromaniaco, legato comunque a un passato nostalgico ideale, a un pensiero infantile o infantilizzato) della realtà virtuale che copre quelle macerie. Ma non si tratta solo di escapismo, di fuga dal reale: si tratta, soprattutto, di alienazione. Il gioco è ovunque: smussa gli angoli del mondo. Quando un personaggio esce dal parco divertimenti di Westworld, trova che la realtà non sia affatto differente. Vero. La gig economy, la cosiddetta economia dei lavoretti (di cui Holy Motors, il nostro film del decennio scorso, è precisa trasfigurazione), di questo è fatta: di gamification. Difficile che un rider, uno di quei signori in bicicletta che consegna il cibo a domicilio mentre voi siete in quarantena, per esempio, abbia contatti umani con i suoi superiori. Tutto passa attraverso una app, con tanto di missioni, punteggi, obiettivi insensati retribuiti (se fai tot consegne in tot tempo guadagni tot euro). È noto che Amazon abbia introdotto in una serie di stabilimenti videogiochi che traducono in gare automobilistiche il lavoro dei dipendenti, rischiando di trasformare la solidarietà tra i lavoratori in ludica (per modo di dire) competizione. E che la Cina stia sperimentando un Grande fratello reale in cui a ogni comportamento corrisponde un punteggio. Altro che Caduta libera, il celebre episodio di Black Mirror. E mentre l’occhiolino e il gattino, l’emoji e la cuteness (la dittatura del carino) filtrano, distorcono e semplificano la nostra realtà a misura di infante (si legga The Power of Cute di Simon May), il gioco è divenuto letale, un modo per fare la guerra, per uccidere sul serio di fronte a un simulatore: guardare Good Kill di Andrew Niccol o Serious Games IIV di Harun Farocki per credere. Al terribile The Game di Alessandro Baricco preferiremo sempre il pensiero negativo del The Game di David Fincher.

    Giulio Sangiorgio
  • Inevitabilismo

    «Presto chiunque, sulla faccia della Terra, sarà connesso». «Molti dei cambiamenti dei quali parliamo sono inevitabili». A dirlo, nel 2013, erano Eric Schmidt e Jared Cohen, rispettivamente CEO di Google e consigliere di Hillary Clinton (già di Condoleezza Rice), nonché autori del saggio La nuova era digitale (Rizzoli Etas). Personaggi quindi assai lontani dal pensiero di Marx e Engels, ma sorprendentemente simili nell’assertività delle sentenze emesse. Sempre di inevitabilità teleologica di un processo si parla: politico per i filosofi tedeschi, tecnologico per i mogul americani. La cosa avverrà: non resta che adeguarsi, arrendersi. Una nuova ideologia, che Shoshana Zuboff, autrice di Il capitalismo della sorveglianza, ha denominato inevitabilismo. Non è importante che si senta il bisogno di questo progresso, perché è il progresso a non avvertire il bisogno del parere altrui in merito. Schiacciato dall’inevitabilismo tecnologico, ogni comportamento umano è rimesso in discussione. Eros e thanatos compresi. Nella serie sci-fi Tales from the Loop (Amazon Prime Video), per coronare il proprio impossibile sogno d’amore una coppia è obbligata a trovare il modo di fermare il tempo di chi la circonda, grazie a un apposito marchingegno. Il tempo “guadagnato”, per quanto dilatato, tornerà a contare come nulla una volta premuto il pulsante “off”. In un’altra serie Amazon Original, Upload, è invece la morte a essere messa tecnologicamente in discussione. Contravvenendo in maniera prometeica non tanto all’esistenza di Dio, ma alla sua effettiva capacità di influire sulle nostre esistenze, la tecnologia crea un’alternativa - che si presenta come il paradiso, ma ricorda più un noioso purgatorio - alla “buona vecchia” morte: quella di effettuare un upload della coscienza del morituro in un limbo virtuale. La morte, come denuncia il filosofo Miguel Benasayag in Funzionare o esistere? (Vita e pensiero), diviene «un funzionamento fisiologico che si potrebbe cambiare. […] Un difetto tecnico». Quindi, in quanto tale, correggibile. Gli effetti di queste alterazioni tecnologiche sono, prevedibilmente, devastanti sulla psiche e sulla sfera affettiva di chi le sperimenta. Eppure, e qui sta la forza di entrambe le serie, nessuno mette in discussione né l’esistenza né l’utilizzo di queste tecnologie. Neppure dopo, quando il danno è fatto. Nessuno ha la forza o anche solo la volontà di porvi un freno, fosse anche quello, magari barbaro e demodé, dei villici armati di forconi che accorrevano sotto il maniero del dottor Frankenstein. Si accetta, con malinconica rassegnazione, la crudele necessità del progresso, fino a divenire cavie. In nome di un bene superiore?

    Emanuele Sacchi
  • Politica

    Se volessimo declinare il concetto di politica in chiave distopica questo assumerebbe sicuramente tratti di visionarietà, ma capaci, al tempo stesso, di apparire fortemente realisti. I connotati, infatti, sono quelli del delirio: dati concreti di fondo, ma amplificati a dismisura, fino a creare un universo in cui la regola è l’eccesso. La politica, quindi, come il descrittore della catastrofe in cui viviamo immersi, lo spazio laboratoriale in cui sperimentare inedite socialità, colte, come sempre, in una situazione estrema. Del resto, come ci ricorda un un brano di Susan Sontag tratto da Contro l’interpretazione (Mondadori), «la nostra è effettivamente un’epoca di estremismi. Viviamo sotto la minaccia continua di due prospettive egualmente spaventose, anche se apparentemente opposte: la banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile». È da questa duplice angolazione che possiamo osservare due serie tv che raccontano quel sentimento di «definitività del nostro tempo», per recuperare un’espressione di John Barth, concetto che si può provare a spiegare rimandando a quella condizione così diffusa da essere diventata quasi un comune sentire: non quello della fine della Storia, ma l’illusione della sua fine, cioè la condanna a un’imminente catastrofe. The Handmaid’s Tale (creata da Bruce Miller, su TIMVISION), tratta da Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood (Ponte alle Grazie), racconta come negli Usa, diventati uno stato teocratico, si è imposta l’idea che l’infertilità sia una punizione per i peccati e per questo sia necessario ritornare alla vita tradizionale; Years and Years (creata da Russell T Davies, su Starzplay) mostra un’Inghilterra in cui le istanze populiste e sovraniste hanno conquistato l’egemonia cavalcando la disperazione e la disinformazione politica dei cittadini. A imporsi, in questi scenari, è la figura del leader, colui che riesce a scardinare le logiche di un sistema imponendo le proprie; Brady Corbet in L’infanzia di un capo ne mostra la formazione, mentre Raoul Peck, in Moloch Tropical, il crepuscolo agghiacciante e patetico. Il leader è sempre espressione di una tirannide che colma il proprio desiderio di repressione anche nei momenti in cui apparentemente concede la più totale libertà, come succede in quel cannibalico baccanale che è La notte del giudizio di James DeMonaco (su Prime, TIMVISION, Chili). Ma questa visione distopica della politica può esprimersi soltanto in narrazioni parallele al reale? No, come ci dimostra Errol Morris in American Dharma, il documentario su Steve Bannon, l’ideologo del neo-populismo di destra, colui che ha trasformato un’inquietante anomalia di sistema nel Presidente degli Stati Uniti d’America.

    Matteo Marelli
  • Transumano

    «Mamma, papà: sono trans», dice una delle giovani protagoniste di Years and Years. Un coming out, accolto con progressista spirito liberal, accettato con l’amore di due genitori che credono nella profonda espressione di sé della loro figlia. Ma no, si sbagliano, «vi sbagliate, non sono transessuale, sono transumana: voglio diventare digitale, fare a meno del corpo in cui mi trovo». E no, questo il padre e la madre no, non lo possono accogliere, non lo vogliono accettare. L’abbiamo detto e ridetto: uno dei crucci del mondo occidentale che conosciamo (o meglio: che conoscevamo prima di COVID-19) è l’allontanamento della morte, considerata un inciampo in questo eterno presente tecnologico, nel sempiterno qui e ora da consumare, per poi ricominciare. La terra promessa di una tecnologia che oggi è in grado di annullare lo spazio e il tempo che ci separa è la scomparsa della morte. Conoscete Zoltan Istvan? È un signore statunitense, di origini ungheresi, che nel 2015 ha attraversato gli Usa su di un camper-bara candidandosi a presidente degli Stati Uniti, con un programma contro la grande consolatrice, e presentandosi - falso, ma poco importa - come leader del movimento transumanista. È uno dei personaggi che incontra, nel suo bellissimo reportage dedicato al mondo trans (questi trans), Essere una macchina (Adelphi), il giornalista Mark O’Connell: per loro, racconta, «la morte non è un problema filosofico, ma un problema tecnico. Ed ogni problema tecnico prevede una soluzione tecnica». Cinema e serialità distopici queste tecniche prometeiche (fondate su basi scientifiche esili, per non dire inesistenti), queste ricerche per una nuova intangibile carne che conferma l’antica, superata dicotomia cartesiana corpo-spirito, le mettono in scena, con toni e registri differenti: basterebbe il pasticciaccio Transcendence (su Netflix), con Johnny Depp (che ovviamente recita meglio da avatar che in carne e ossa), film fallimentare e balbettante tra utopia e distopia, a verificare quanto questo sogno d’immortalità penda sul crinale dell’incubo, e viceversa. O guardarsi la nuova serie Amazon Prime Video Upload, in cui il caricamento di coscienze in rete è da una parte un diritto da rivendicare per tutti e dall’altro un incubo classista. Nella puntata di Black Mirror intitolata San Junipero è solo in questo digitale paradiso post mortem che le protagoniste possono essere quello che realmente si sono sentite durante un’esistenza repressa. La questione, in ogni caso, è etica: e film in cui l’immortalità si raggiunge a spese altrui (i cloni in Non lasciarmi, i subalterni in Self/Less) lo mettono limpidamente in scena.

    Giulio Sangiorgio

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