America Confidential

Servizio pubblicato su FilmTv 47/2019

America Confidential


Speciale critico - The Irishman

Cinque chiavi di lettura e cinque curiosità per guardare da vicino, o con lenti inedite, il nuovo gangster movie di Martin Scorsese, attualmente nelle sale e dal 27 novembre 2019 in streaming su Netflix. Da leggere dopo aver visto il film.

  • E questo è quanto

    A chi racconta la sua storia Frank Sheeran? Non alla polizia, a cui rifiuta di confessare i suoi crimini, e nemmeno al prete, a cui confida i peccati ma non la vergogna della telefonata alla moglie di Hoffa dopo averle ucciso il marito. Chi è dunque l’interlocutore a cui Frank dice «e questa è la storia», in modo simile a come Asso Rothstein nel finale di Casinò diceva «e questo è quanto»? Allo spettatore, certo, ma Frank Sheeran, a parte un fugace momento quando gli viene ordinato di eliminare Hoffa, non guarda mai in macchina, mentre nei primi piani che lo riprendono raccontare si rivolge chiaramente a un interlocutore. Un testimone mancante, dunque, un terzo elemento, né personaggio né spettatore. Una presenza. Forse Scorsese stesso, che guarda sovente le azioni a distanza, in piano totale, partecipe eppure oggettivo? Così almeno riprende il pestaggio da parte di Frank del droghiere, sotto gli occhi della figlia Peggy, o il suo primo omicidio. Frank stesso, in realtà, non fa che osservare il mondo di cui fa parte ma del quale sarà sempre un fiancheggiatore (come già facevano i personaggi di De Niro in Quei bravi ragazzi e Casinò) e per tutto il film Peggy nemmeno gli parla, lo guarda soltanto. Gli stessi mafiosi, nei loro dialoghi cifrati, prevedono sempre la presenza di un terzo assente: «Chi l’ha detto?», chiedono di continuo, guidati o osservati da qualcuno al di sopra di loro. Come sempre in Scorsese, la realtà è stratificata: c’è il livello della mafia («you people»), c’è il potere di Hoffa, che mafioso non è, c’è la servitù di Frank, che mafioso non sarà mai, c’è il giudizio della figlia, e su tutti - come la telecamera di sorveglianza di Casinò - c’è una presenza fantasma che ascolta la storia e la testimonia. Credo derivi da qui, dall’assunzione di un punto di vista complessivo ma coinvolto nel testo, la moralità dello sguardo di Scorsese, che in The Irishman più che mai gli permette di comporre la Storia americana come la sua stessa storia, e la storia di uomini che comandano ogni cosa, ma come tutti finiscono anche loro nel buio tempo.

    Roberto Manassero
  • American Tabloid

    «Per ogni grande avvenimento pubblico violento, sismico, devono esserci piccoli tirapiedi che fanno il loro sporco lavoro da formiche. [...] Se estrapoli dai grandi avvenimenti il piccolo ma fondamentale apporto di questi uomini, otterrai i miei libri». Così James “Damon Dog” Ellroy. Il pensiero corre alle figure inventate di American Tabloid (1995), ambientato tra il 1958 e l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy detto Jack, quando invece “l’irlandese” Frank Sheeran, sindacalista e tirapiedi della famiglia mafiosa dei Bufalino, è figura storica, ma sempre minuta, almeno fino all’affresco di Martin Scorsese e all’interpretazione di Robert De Niro (già malavitoso irlandese in Quei bravi ragazzi). Di American Tabloid - fonte di controstoria (o «storia segreta», direbbe Ellroy) indiretta del film - manca una figura ingombrante come quella del produttore Howard Hughes, al quale però Scorsese già dedicò The Aviator (2004). Altrettanto ingombrante, soprattutto nell’assenza, è Jimmy Hoffa, che diventa figura nera di un’amnesia collettiva, il personaggio pubblicamente onesto, amato e rispettato il quale “forse”, dietro le quinte, era tutt’altro, oltre che comunque “uomo di potere” capace di condizionare l’azione di un presidente, o le decisioni di una “cupola” mafiosa. Nella terza stagione di I Soprano, a un certo punto Tony e lo zio Corrado detto Junior, formalmente ancora boss della famiglia, si trovano nell’ascensore di un ospedale, Junior è malato, discutono animatamente sul fatto che si lasci toccare da un unico chirurgo perché si chiama Jack Kennedy. «Ma da dove viene tutta questa ammirazione per JFK?» chiede Tony, «Non ti ricordi cosa ha fatto a Jimmy Hoffa e agli altri amici?». La risposta dello zio è in levare: «Ma quello era l’altro Kennedy, for Christ sake! Bobby!». Dove sta, in tutto questo, la Storia? Neanche più nei fuoricampo. In The Irishman, per dire, Lee Harvey Oswald è nominato solo di sfuggita. Quando si parla di Dallas, si dà per scontato che a uccidere JFK sia stata una macchinazione paramafiosa (con nomi, cognomi, moventi) e non un pazzo solitario. La storia segreta di American Tabloid è diventata l’unica possibile, almeno nella grande narrativa popolare, e non ce n’eravamo neanche accorti.

    Mauro Gervasini
  • Un film parlato

    Sono due le cose che più mi hanno colpito di The Irishman. Prima cosa: l’entrata in scena di Al Pacino nei panni di Jimmy Hoffa, il celebre sindacalista. Seconda cosa: l’uscita di scena di Al Pacino nei panni di Jimmy Hoffa, il celebre sindacalista. Pacino è al suo solito, e a volte sembra ancora sul set di L’avvocato del diavolo. Per tenerlo a freno, ci vuole un dittatore. Scorsese lo è stato, un dittatore, ma è comprensibile che non gli interessi più indossarne gli abiti. Un po’ perché è tra amici. Un po’ perché capisce che Pacino, tra un Robert De Niro compresso e un Joe Pesci indecifrabile, è anche chiamato a essere se stesso. Tuttavia il suo ingresso e la sua dipartita mi paiono emblematici: compare a film abbondantemente iniziato, con un controcampo telefonico in primo piano e in penombra, nient’altro; esce dal film con un colpo alla nuca, pum!, il corpo che crolla a terra, un totale in interni. Nessuna enfasi, nessuna elegia mitopoietica. Si tratta, tutto sommato, di un’apparizione e di una sparizione dimesse. Come fossero già previste e già date. Sembra addirittura che ci sia dietro un lavoro di smantellamento dello statuto iconico della star: se così fosse, sarebbe ancora più paradossale e sorprendente, visto il carattere indomabile tanto del personaggio, quanto dell’attore che lo interpreta. Credo comunque che queste due cose, a mio parere eccezionali, rappresentino al meglio l’idea di stile che sta alla base del film: Scorsese racconta in forma orale, e le immagini, lui che dell’irrobustimento delle immagini ha quasi sempre fatto bandiera, perdono il loro primato. La voce over di De Niro è soltanto uno strumento tra i tanti. È tutto The Irishman che si articola come una memoria parlata, dove il montaggio è - chiaramente - invisibile e gli eventi, uno di seguito all’altro, trovano uno sviluppo orizzontale. Perfino l’ultima ora, nella sua suspense insostenibile, avviene “in piano”. The Irishman vive sottovoce. Non c’entra la vecchiaia. C’entra, finalmente, il cinema.

    Pier Maria Bocchi
  • L’arma del delitto

    Che tipo di gangster movie stiamo guardando? Lo si capisce dalle esecuzioni. Negli anni 30: mitragliate dalle auto, bagliori dentro i locali (spesso fuori campo) e criminali (spesso James Cagney) che agonizzano su scalinate o marciapiedi, per garantirsi una morte al tempo stesso animalesca e carismatica. Negli anni 80, in Vivere e morire a Los Angeles, ci si ammazza a fucilate in pieno volto, l’omicidio avviene in modo brutale, il realismo sanguinario attraversa lo schermo. In The Irishman si usano calibri molto piccoli, si scelgono pistole utili alla bisogna, anzi è fondamentale che chi ci sa fare sappia anche individuare quale rivoltella sia la più adatta. Quando arriva il momento, ci si avvicina alla vittima, la si chiama, la si avvicina come nulla fosse e le si spara dritti in un occhio, al collo, alla tempia, alla nuca, per poi concludere con qualche altro colpo sul corpo cadente o caduto, per essere sicuri di aver terminato il lavoro. Più Friedkin che Wellman o Walsh, insomma, ma con qualcosa di diverso. La rapidità dell’esecuzione, il nervosismo spietato del gesto, lo squallore nichilista dell’istante con cui si trasporta un essere umano (un corpo) dalla vita alla morte, valgono un raccapriccio più intenso rispetto all’iper-violenza della new Hollywood anni 70 e 80. Ci raccontano Frank Sheeran e gli altri sicari meglio di qualsiasi sfumatura di racconto (e ce ne sono), più di ogni teoria del volto digitale (e ce ne sarebbe da dire), più chiaramente di tutti i tradimenti osceni che attraversano la storia (americana). Persino la hybris di ammazzare un presidente degli Stati Uniti in carica è solo mettere una pallottola nella testa di qualcun altro: il cadavere scempiato livella le vittime. L’agguato omicida - il perno stesso del genere, la sua figura retorica per eccellenza - viene svuotato da Scorsese fino al midollo. In un film di tre ore e mezza, servono pochi secondi per morire. Pochi secondi per uccidere l’epica. Pochi secondi per dimenticare Il padrino.

    Roy Menarini
  • Doors Wide Shut

    All’uscita di Quei bravi ragazzi, Franco La Polla, sulle pagine di “Cineforum”, scriveva che ciò a cui stavamo di fronte era un film «definitivo», capace di rivisitare un ambiente e un tema particolarmente congeniali a Martin Scorsese (avendo in pratica tenuto a battesimo il suo cinema dai tempi di Chi sta bussando alla mia porta? e Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all’inferno), ma soprattutto di regolare «i conti con le pellicole di gangsterismo mafioso che egli stesso aveva contribuito a fondare» (in cui il gangsterismo va inteso nei termini di una metafora generale e onnicomprensiva della morale sociale del successo economico). The Irishman spinge oltre quel senso di definitività e lo fa proprio ripartendo da Quei bravi ragazzi: l’ultima regia si apre con un pianosequenza in soggettiva che, seppur ripensato in chiave senile, richiama subito alla mente quello del film del 1990 (quando Henry Hill oltrepassa la fila dei clienti, scende nel seminterrato ed entra dal retro nel ristorante per assistere allo spettacolo di stand-up comedian). Una scelta discorsiva, che oggi come allora, ci mette davanti al presupposto che le cose non si rendono visibili da sole, che c’è qualcuno che consente di afferrarle, di trasformarle in realtà percepita; qualcuno che va in perlustrazione e ci indica un sentiero, un percorso di visione. Ciò che si stabilisce è una reversibilità di sguardi che dà modo al film di spingersi al di là delle soglie, di evadere oltre i confini consentiti, chiamandoci direttamente in causa in quanto complici sottili posti ai margini della scena. Una situazione che si ripresenta poi nel finale, anche se mutata di segno: mentre il pianosequenza d’apertura ci catapulta nell’universo del racconto, la carrellata all’indietro, a partire dalla porta socchiusa (così lasciata «perché anche la morte non sia così definitiva») prolunga e sfuma lo sguardo in macchina del protagonista verso la sala, verso quell’unico fuoricampo che non potrà mai essere trasformato in campo. E di fronte a quello sguardo che vediamo guardarci ci scopriamo visti.

    Matteo Marelli
  • Cinque curiosità
    • L'OMBRA DI CHUCKIE 
      Steven Zaillian, già collaboratore di Scorsese per Gangs of New York, ha tratto lo script di The Irishman dal libro di Charles Brandt (Fazi editore), il quale afferma di aver ricevuto da Frank Sheeran, sul letto di morte nel 2003, la sua confessione riguardo all’esecuzione di Hoffa. La credibilità di questa versione è stata messa in discussione da molti: di recente, anche da Jack Goldsmith (figliastro del pupillo di Hoffa, Chuckie O’Brien, nel film interpretato da Jesse Plemons), che ha pubblicato il suo In Hoffa’s Shadow in concomitanza con l’uscita del film.
    • EFFETTO BOOMERANG
      Nella seminale I Soprano David Chase dichiarava il suo amore per Scorsese e Quei bravi ragazzi, dal cui cast ha “prelevato” ben 27 attori. Nonostante Martin, invece, non sia un fan della serie HBO (dice di averne visto solo un episodio), in The Irishman sbucano volti noti ai seguaci di I Soprano: Robert Funaro, John Bianco e soprattutto Kathrine Narducci, nel ruolo della moglie di Bufalino. Il cameo più gustoso, però, è quello di Steven Van Zandt, sodale di Springsteen e indimenticabile interprete di Silvio Dante, che appare nei panni di un elegante crooner italiano.
    • CHI DORME NON PIGLIA JOE
      Joe Pesci era assente dallo schermo dal 2010 di Love Ranch, apparizione sporadica dopo che, nel 1999, aveva annunciato il ritiro dai set. La leggenda nata intorno alla lunga attesa di The Irishman vuole che nei due decenni trascorsi dal “pensionamento”, Pesci abbia rifiutato il ruolo di Bufalino offertogli da Scorsese non meno di 50 volte, prima di arrendersi. La star settantaseienne, anche cantante sin dall’adolescenza, ha apprezzato il ritorno sulla ribalta, tanto che il 29 novembre pubblicherà il suo nuovo album, il primo in 21 anni: Still Singing.
    • AL CONTRO AL
      Robert De Niro e Stephen Graham, che in The Irishman interpreta Tony Provenzano, sono stati entrambi Al Capone sullo schermo: il primo in The Untouchables - Gli intoccabili, il secondo nella serie Boardwalk Empire. Graham, ansioso di lavorare con un gigante come De Niro, è stato molto deluso di scoprire che nella loro unica scena insieme (il teso confronto fra Hoffa e Provenzano) non erano previste interazioni fra i personaggi: il dialogo tra i due (circa il ritardo dell’arrivo di Tony) è stato infatti completamente improvvisato da Graham, con pronta risposta di De Niro.
    • FOREVER YOUNG
      Con 108 giorni di riprese, The Irishman è stata la più lunga lavorazione nella carriera di Scorsese (oltre a essere il suo film di maggiore durata); tempistiche in parte dovute al complesso sistema di de-aging elaborato dalla Industrial Light & Magic per ringiovanire De Niro, Pesci e Pacino di una trentina d’anni. La tecnica prevedeva la stretta collaborazione tra il responsabile della ILM, Pablo Helman, e il direttore della fotografia Rodrigo Prieto: ogni macchina da presa era fornita di due lenti aggiuntive, per catturare i segnali dai sensori applicati sui volti degli attori.
    Ilaria Feole
  • La recensione

    The Irishman non è solo una summa irresistibile e suprema del cinema di Scorsese; è anche la celebrazione di un modo di fare e pensare il cinema americano. Scorsese, oggi, incarna non solo la memoria del cinema statunitense, da Griffith in avanti passando per l’adorato Hawks e l’amato Ford, ma rappresenta la dignità di un modo di vivere, pensare e praticare il cinema esploso agli inizi degli anni 70, quando il rinnovamento di Hollywood passava per nomi come Coppola, Spielberg, Bogdanovich, Friedkin, Milius, De Palma e altri (tutti allevati da Corman). Ogni inquadratura di The Irishman trasuda una dignità inamovibile, fiera, una consapevolezza unica del cinema, del suo linguaggio, della storia e della sua arte. Nella vicenda del killer irlandese Frank Sheeran (un De Niro sublime), figura chiave di alcuni dei crimini più nefasti ordinati dalla mafia italoamericana, della sua amicizia con Russell Bufalino (un Joe Pesci perfetto) e del loro rapporto con Jimmy Hoffa (Al Pacino: magnifico!), il capo dei Teamsters, il sindacato dei camionisti cui il mondo del crimine chiede prestiti per finanziare i casinò a Las Vegas, Scorsese compone un affresco complesso del tempo perduto di rara commozione. Nella sceneggiatura di Steven Zaillian, Frank e Russell intraprendono un viaggio, assieme alle mogli, che attiva la memoria. E mentre la vettura procede in avanti verso Detroit, la memoria di Frank viaggia all’indietro: la prima volta che ha incontrato Russell ai lavori per la mafia. Rispetto a Quei bravi ragazzi Casinò, Scorsese abbandona il primato del montaggio per dare forma a una memoria malinconica che scorre lentamente, inesorabilmente. Non vi è più nessuna epica, tutto avviene nella dimensione di un racconto ad altezza di vicinato, di quartiere. Le uccisioni sono eseguite con il minimo di dispendio di volume da fuoco e delle armi ci si libera attraverso il rapido montaggio reiterativo a opera della sempre magnifica Thelma Schoonmaker. The Irishman reiventa letteralmente il mondo gangsteristico di Scorsese. Il tempo erode tutto e nessuno si ricorda di Jimmy Hoffa o di Anthony “Fat Tony” Salerno. Resta solo Frank, che invece si ricorda tutto, tutti, ma continua a tacere. Solo i federali si ricordano ancora di Frank, ma lui con loro non parla. The Irishman è il poema del tempo perduto di Scorsese, intrecciato nell’omaggio agli amici De Niro e Pesci (senza dimenticare Harvey Keitel). I movimenti di macchina sulle automobili, la dolcezza con cui il regista filma il rituale del pane bagnato nel vino che resta identico nel corso degli anni e il tempo che Scorsese dona ai suoi attori per ritrovare se stessi e un mondo ormai perduto sono semplicemente commoventi. E sullo sfondo risuonano il tema di Grisbì di Becker, le musiche di Nascimbene per La contessa scalza di Mankiewicz e persino il tema di Anna (El negro Zumbón) composto da Trovajoli. Un tempo trascorso inesorabilmente anche per lo spettatore. Mai più, infatti, questo mondo tornerà a vivere con tanta forza, bellezza, necessità e, sì!, poesia, sullo schermo. The Irishman è anche la nostra storia: di come abbiamo amato il cinema americano e di come abbiamo imparato a rivederlo attraverso i film di Scorsese. E ora anche noi siamo storia. Anche se nessuno ci ha visti.

    Giona A. Nazzaro

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